Funerale all'Alcatraz
Mark Lanegan in Italia per presentare il nuovo disco.
29 marzo 2012 • 2 minuti di lettura
Vivo Concerti Milano
Tenui luci rosse e blu, atmosfera soffusa, scenografia essenziale: per l’approdo in Italia di Mark Lanegan e del suo Funeral Blues Tour, l’Alcatraz Club di Milano ha riservato una degna accoglienza sepolcrale. Ad aprire le danze, prima dello show del tenebroso crooner americano, sono stati i Creature With An Atom Brain, formazione belga che ha intrattenuto il numeroso pubblico con un indie rock influenzato dalla lezione di Queens of the Stone Age e Afghan Whigs, non particolarmente ispirato ed anzi, a tratti, addirittura ripetitivo. Se non altro, questa prima parte della serata ha accresciuto l’attesa per il main event: Mark Lanegan, la sua band, le sue canzoni intrise di sofferenza, passione, blues ipnotico e primordiale. Non a caso, infatti, l’ovazione che ha accolto l’ex leader degli Screaming Trees sul palco conferma quanto il desiderio di rivederlo e, soprattutto, riascoltarlo nel nostro Paese fosse alto. Desiderio questo che è stato debitamente ripagato da un’ora e mezza di concerto intenso, profondo, senza cali di tensione. Lanegan ti obbliga a non distrarti, riesce a calamitare il tuo sguardo, la tua mente, ad annebbiare i tuoi sensi con la sua aura mefistofelica, i suoi occhi piccoli e neri, la sua statura imponente, il suo andamento sbilenco, la sua voce (in quest’occasione purtroppo penalizzata da un’equalizzazione non propriamente eccellente). Ventuno i brani, un unico sound: un mondo di suoni, distorsioni, gemiti, ruggiti e un pizzico di elettronica (la nuova "Ode to Sad Disco" su tutte) che l’artista di Ellensburg è riuscito a modellarsi negli anni, imponendo un suo originale, stimato nonchè riconoscibilissimo marchio di fabbrica. Molti i classici inanellati nel corso dell’esibizione, da "Wedding Dress" a "Methamphetamine Blues" fino a alla sublime "One Way Street". Peccato invece, nonostante le molte gemme estratte dal suo recente [i]Funeral Blues[/i], per la mancanza in scaletta di "Bleeding Muddy Waters", forse la canzone più rappresentativa per titolo, arrangiamento e testo di quello che la musica di Mark Lanegan è oggi.