Foligno: se l'ammalato è immaginario

Il "Belli" di Spoleto riscopre un intermezzo di Vinci

L’ammalato immaginario
L’ammalato immaginario
Recensione
classica
Foligno, Politeama Clarici
L’ammalato immaginario, La serva padrona,
22 Ottobre 2021

Grazie alle cure editoriali di Gaetano Pitarresi e all’opera di riscoperta promossa dal Centro Studi Pergolesi dell’Università di Milano, un intermezzo in tre parti di Leonardo Vinci, L’ammalato immaginario, è approdato sulle scene per la prima volta in tempi moderni, proposto dal Teatro Lirico Sperimentale “A. Belli” di Spoleto dapprima quale titolo unico di serata, poi – in circuito regionale – accoppiato al più noto tra gli intermezzi di contesto napoletano, La serva padrona di Pergolesi.

Vinci, nato in Calabria, morto a Napoli – dove ha studiato ed è stato attivo – all’età di 40 anni, ha goduto anni fa di una certa attenzione dal mondo musicale, con la riproposta della sua ‘commedeja pe’ mmusica’ più fortunata, Li zite ‘ngalera. Il suo catalogo è però ricco pure di lavori in lingua, e l’intermezzo in questione figurava – come d’uopo – entro gli atti dell’Ernelinda, un suo dramma per musica del 1726 andato in scena al Teatro San Bartolomeo: atipico che le parti/scene di L’ammalato immaginario siano tre anziché due, e sorprendente che dopo le prime due parti, canoniche nello svolgimento diegetico (una giovane e angustiata vedova convince - anche travestendosi da medico - un attempato ma danaroso ipocondriaco a curare i suoi malanni sposandosi, con finale giubilo bipartisan), i due si ritrovino di punto  in bianco ai ferri corti matrimoniali, tanto da accettare una separazione di fatto che restituisce a Don Chilone la pace e conserva a Erighetta libertà e sicurezza economica. Va precisato che la trama dell’intermezzo – libretto non firmato – rivisita e ricombina elementi sì presenti nella celebre pièce di Molière (nel frattempo circolata in Italia), i quali tuttavia sono leggibili pure come topoi del repertorio comico: la vedovella in cerca di marito, l’anziano da convincere, il latino maccheronico del falso dottore. Perciò, regista (Andrea Stanisci) e direttore (Pierfrancesco Borrelli) hanno scelto di rappresentare mimicamente l’anello drammatico mancante – il contrasto tra i due – attraverso due arie coturnate dell’opera seria cornice, e un brano strumentale attinto, come il brano d’apertura, al catalogo di Michele Mascitti.

Musicalmente, questi intermezzi di Vinci stupiscono – al pari di tanti loro simili – per la puntuale e matura capacità di caratterizzare, in termini di impianto drammatico-musicale, le figure melodico-vocali e quelle strumentali intessute o avvicendate nella partitura, soprattutto nei magnifici duetti: siamo alla radice del teatro musicale internazionale dei due secoli successivi, almeno per la compenetrazione tra discorso musicale e relazioni interpersonali. Registicamente, l’azione scorre in modo convincente, fino ad approdare al doppio ribaltamento conclusivo: l’ipocondriaco riprende autoritariamente le redini, ma un’ambulanza giocattolo irrompe sul palcoscenico negli ultimissimi secondi... Aiuta al riguardo la fluidità di esecuzione del continuo al cembalo, nei recitativi secchi, perfino svincolata – attraverso sistematici anticipi – dalla sincronia della cadenza armonica con la battuta conclusiva, senza che ciò generi particolare fastidio; più faticosa, semmai, la sincronizzazione e l’intonazione dello strumentale d’archi a parti reali nei pezzi misurati, ma la vastità un po’ dispersiva del Politeama Clarici di Foligno (dove lo spettacolo in tour è stato visionato) non ha certo aiutato.

È noto come la ragion d’essere del Lirico Sperimentale sia formare e mettere alla prova giovani solisti di canto, anche in repertori che affrontano per la prima volta – o quasi – in scena e nell’interezza del titolo, per cui è giusto misurare la loro performance anche, se non soprattutto, per il potenziale che fa intravedere. Le voci di maggior prospettiva, nel due lavori della serata cui si è presenziato, sono parse il mezzosoprano Chiara Boccabella (Erighetta in Vinci), ancora leggermente rigida in alcuni fraseggi e non sempre omogenea, ma complessivamente convincente, e il baritono Luca Simonelli (Uberto in Pergolesi), assai plastico sia nell’azione sia nella voce, di cui qua e là ha perso leggermente il controllo timbrico senza comunque nuocere alla resa interpretativa. Hanno completato i cast folignate Matteo Lorenzo Pietrapiana (Don Chilone) e Elena Finelli (Serpina), nonché – nei ruoli muti – Giorgia Teodoro e Valentino Pagliei.

Pubblico sparpagliatamente isolato nell’ampia platea del Politeama Clarici, ma dopotutto generoso negli applausi.

 

 

 

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