Daniel Harding inaugura con "Die Walküre" la stagione sinfonica dell’Accademia di Santa Cecilia
La prima giornata dell’Anello del Nibelungo rappresentata nella sala da concerto in un grandioso allestimento scenico
26 ottobre 2025 • 5 minuti di lettura
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia
Die Walküre
23/10/2025 - 27/10/2025Le stagioni sinfoniche dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia hanno una lunga tradizione di esecuzioni di opere, ma sempre in forma di concerto, dato che svolgono in una sala da concerto. L’unica eccezione che ricordiamo è il Tannhäuser diretto nel lontano 2002 da Myng-Whun Chung con la regia di Daniele Abbado, in un’edizione semiscenica. È invece scenica al cento per cento Die Walküre, che ha inaugurato la stagione sinfonica 2025-2026 e a cui faranno seguito le altre due “giornate” di Der Ring des Nibelungen, che inaugureranno le due prossime stagioni. E nel 2028 si rappresenterà l’intera Tetralogia wagneriana, con il prologo Das Rheingold.
Ma iniziamo dalla musica. Daniel Harding ha fatto sentire cose meravigliose, soprattutto negli ampi squarci sinfonici, iniziando dalla tempesta iniziale (la furia degli elementi e l’angoscia interiore del fuggiasco si sovrapponevano, mozzando il fiato), passando per la cavalcata delle Walchirie (grandiosa, potente, spettacolare) e arrivando all’incantesimo del fuoco (un suono-colore incorporeo e luccicante, come un fuoco irreale, sovrannaturale, miracoloso, che non devasta, al contrario apre nuove storie e nuovi mondi). Non solamente in queste grande pagine ma anche in tanti passaggi di poche battute l’orchestra affermava il suo ruolo di protagonista, spesso con ‘fortissimo’ di potenza terrificante ma anche con ‘piano’ e ‘pianissimo’ di trasparenza cristallina.
L’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia ha risposto meravigliosamente. Bisognerebbe segnalare uno per uno tutti gli strumentisti ma ci limitiamo ad evidenziare il suono rotondo e potente ma non disgiunto dalla morbidezza dell’ampia sezione degli ottoni, che nelle tipiche esecuzioni wagneriane esibizioni spesso esibiscono un suono strabordante e rude, con il pretesto che tutto si svolge in un mondo barbarico. Uno dei rarissimi casi in cui nella Walküre un singolo strumento emerge dall’orchestra wagneriana, sempre molto compatta, è il ‘solo’ del violoncello nel finale del primo atto, carico di emozione e di pathos: l’ha suonato splendidamente Amedeo Cicchese, una new entry nell’orchestra ceciliana. Indubbiamente il ruolo protagonistico dell’orchestra era rafforzato dalla sua collocazione non nel profondo ‘golfo mistico’ wagneriano ma in posizione rialzata e in primo piano.
C’è un rovescio della medaglia: lo splendido risalto dato da Harding ai caratteri e ai colori specifici d’ogni singolo momento dell’immensa partitura trasformava il grandioso fluire epico della musica wagneriana in un’alternanza di maestosi fiumi sonori, di limpidi ruscelletti e di cascate fragorose. Ad attenuare il rischio di frammentazione era il rilievo dato da Harding ai ritorni dei vari motivi conduttori. Tuttavia l’impressione è che a Harding manchi ancora il passo del fondista wagneriano: insomma - scusate il paragone letteralmente pedestre - sembra più un centometrista che un maratoneta. Questo si avvertiva soprattutto nei lunghi monologhi e dialoghi che occupano quasi per intero il secondo e il terzo atto, quando l’orchestra era curata fin nei minimi dettagli ma non partecipava, si limitava ad assistere, fornendo soltanto un accompagnamento alle voci, che potrebbe andar bene (non tanto) in un’opera italiana ma non in Wagner. D'altronde questo era quasi un debutto per Harding, che prima d’ora aveva diretto soltanto il primo atto di questo dramma musicale, un mese fa a Parigi in forma di concerto. E questa è musica che va prima meditata a lungo e poi provata e riprovata, per giungere a capo dei tanti problemi interpretativi.
Il cast vocale era di lusso. Ad interpretare Wotan era Michael Volle, uno dei grandi cantanti wagneriani di oggi, come hanno confermato la nobiltà della sua linea vocale, la sua collera divina per la disobbedienza di Brünnhilde, la commovente intensità dell’addio alla figlia. La sua sposa Fricka era Okka von der Damerau, un’altra wagneriana di rango, perfetta sia nel litigio quasi da coppia borghese con Wotan sia quando si erge a difenditrice delle leggi supreme che devono essere rispettate anche dagli stessi dei che le hanno imposte. Miina-Liisa Värelä era Brünnhilde, ovvero la Walchiria che dà il nome a questa prima giornata della Tetralogia: si poteva desiderare qualcosa di più sia dalla sua voce - a sua agio nel registro grave e centrale, meno in quello acuto - sia dalla sua interpretazione ma comunque una cantante di buon livello. Anche Stephen Milling è ai vertici del canto wagneriano: la voce ha una potenza stupefacente, che gli permette di dare senza sforzo apparente il colore oscuro e l’accento minaccioso che spettano al terribile Hunding. Le otto Walchirie erano un gruppo mirabile: ognuna di loro non sfigura al confronto della loro sorella Brünnhilde (ma certo non hanno una parte così terribilmente faticosa).
Last but not least, la coppia dei fratelli gemelli e amanti incestuosi, Siegmund e Sieglinde. La lituana Vida Miknevičiūtė estrae da un fisico minuto una svettante e lucente voce d’acciaio, ma allo stesso tempo flessibile, messa al servizio di un’intensa interpretazione. Alle voci wagneriane doc dei suoi colleghi lo statunitense Jamez McCorkle contrappone una voce più calda, un leggero vibrato e interessanti ‘mezze voci’: questo gli permette un fraseggio più vario ed espressivo, che non rientra nel bagaglio del tipico cantante wagneriano e che a lui ha consentito di dare un bel fervore lirico ai duetti (se così si possono chiamare) con Sieglinde e di raggiungere nel “canto della primavera” alla fine del primo atto un’emozionante sintesi dei due massimi ideali romantici, l’amore e la natura. Il rovescio della medaglia è che il volume è inferiore a quello dei suoi colleghi e che alla fine si avverte una certa stanchezza. Credo però che ci siano dei buoni motivi se è stato scelto per questa parte da due dei principali direttori attuali, quali Harding (a Parigi e Roma) e Dudamel (a Los Angeles).
Sul palco dell’orchestra è stata montata la scena - inevitabilmente fissa non essendoci né una torre scenica né un sottopalco - disegnata da Pierre Yovanovitch, noto architetto e designer d’interni d’oltralpe. È un’enorme edificio dalle forme squadrate, che si sviluppa su tre piani raccordati da scale, bianco come la calce, che non ha nulla di nordico e potrebbe ricordare una fortezza nel deserto o la la casbah di Algeri o qualche villaggio mediterraneo come Mykonos. In realtà è un chiaro rimando alle scenografie di Adolphe Appia, che cent’anni fa rivoluzionò la concezione dello spazio teatrale e realizzò alcune messe in scena dei drammi musicali wagneriani che fecero epoca. Il giovane Vincent Huguet ha ideato in questo spazio una regia essenziale, quasi astratta, che metteva in risalto sia la grandiosità mitologica del dramma wagneriano sia la solitudine dei personaggi, in particolare di Wotan. I costumi di Edoardo Russo, realizzati dalla mitica sartoria teatrale Tirelli Trappetti, svariavano dalle pelli che ricoprivano Hunding alle tuniche classicheggianti e agli eleganti abiti neri disegnati all’inizio del Novecento da Fortuny. Nulla di particolarmente nuovo e originale (non è obbligatorio per una messa in scena) ma un riuscito complemento di un’esecuzione musicale memorabile, salutata da ovazioni più che meritate.