Chailly esalta Šostakovič
08 dicembre 2025 • 4 minuti di lettura
Milano, Teatro alla Scala
Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk
07/12/2025 - 19/12/2025La Scala inaugura la stagione 2025-26 con Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Šostakovič, in occasione del cinquantenario della morte del compositore; sul podio Riccardo Chailly, al suo ultimo 7 dicembre come direttore musicale della Scala, che così arricchisce il suo amato repertorio russo al Piermarini, a partire dalla Fiera di Soročincy nel 1981, L’angelo di fuoco nel 1994 fino al Boris Godunov di tre anni fa.
L'esecuzione è stata senza ancun dubbio di altissimo livello, l'organico scaligero ha mostrato compattezza e assoluta lucidità, quasi a suggerire che sia l'orchestra il vero "io narrante" di questa vicenda tragico-satirica (secondo la definizione dello stesso Šostakovič). A darne un esempio basterebbero l'interludio sinfonico del primo atto, coi languori della protagonista raccontati dalla celesta e dall'arpa, e il successivo che descrive l'appassionato amplesso degli amanti che termina con l'allusivo glissando del trombone. Ogni passaggio è stato cesellato con minuzia, in rispetto dei continui ammiccamenti del compositore. E con la stessa intensità Chailly ha reso materiche le sonorità aggressive, che scandiscono le scene più drammatiche. Al limite della virulenza acustica, in sintonia con quella della trama dell'opera.
La regia di Vassily Barkhatov, complici le scene di Zinovy Margolin, ha trasportato la vicenda da un mondo agricolo primordiale (il racconto di Leskov da cui è tratto il libretto uscì nel 1864, tre anni dopo l'abolizione della servitù della gleba, non a caso la protagonista si dichiara analfabeta) a una città dell'ultimo dopoguerra, con architetture e arredamenti un po' retro rispetto agli anni Cinquanta dell'Europa occidentale. Siparietti scorrevoli per gli interni e una grande balconata rotante che occupa l'intero palco e diventa sala di ristorante, posto di polizia o altro.
Alcuni interludi sinfonici, che in origine servivano ai cambi di scena, ma raccontano quanto sta accadendo o sta per accadere, sono utilizzati dal regista per illustrare quanto è accaduto. Il passato viene evocato tramite l'interrogatorio dei colpevoli e dei testimoni, mimato dal poliziotto che conduce le indagini a un tavolino in proscenio. Ora con proiezioni su un grande schermo di documenti d'identità, impronte digitali, reperti, ora col palcoscenico a disposizione dove gli inquisiti ricreano le situazioni vissute. Talvolta anche con l'intervento dei poliziotti che raccolgono dati e fanno fotografie, mescolando ancor più i piani temporali. Così succede che Katerina e Sergej si apprestino a fare all'amore con le manette ai polsi, quando in quel momento sarebbero ancora liberi cittadini, e gli invitati al loro matrimonio assistano alla tragedia dell'ultimo atto in una Siberia ricreata sul palco. Il gioco del teatro nel teatro non agevola certo il ritmo drammaturgico, pazienza se crea qualche problema di comprensione allo spettatore, ma purtroppo finisce per lasciare in secondo piano il coté gogoliano della vicenda o le scene da operetta a favore di quello dostoevskiano. Scelta legittima, ma non del tutto rispettosa delle intenzioni del compositore, che a Gogol fa esplicito riferimento a proposito dei funghi avvelenati. Ciò che invece rimane incomprensibile è l'aver eliminato il personaggio del Pope. Quando nel secondo atto dovrebbe intervenire a benedire Boris moribondo, il Pope è ubriaco (il gesto del bere è parecchio ripetitivo nelle controscene, quanto l'accendere sigarette) e viene rimpiazzato da un cuoco che ne veste l'abito. Mentre nel terzo atto è il cuoco stesso con cappello d'ordinanza a cantare la parte del Pope e a invitare gli sposi a baciarsi.
A parte questi dettagli, lo spettacolo è di grande impatto visivo ed eleganza. Nel quarto atto, sfondando la vetrata del ristorante irrompe in scena un camion militare coi detenuti. Da questo istante ha inizio il viaggio verso la morte dei detenuti, con anche un momento hard quando Katerina viene stuprata con un paletto da una compagna. Poi la tragedia si conclude con un colpo di scena che lascia senza fiato, perché Katerina e la rivale Sonetka invece di finire nel lago ghiacciato diventano torce umane avvolte dalle fiamme. Spente in pochi secondi per non ustionare le loro controfigure.
Nel cast svetta Sara Jakubiak per voce e presenza scenica; già protagonista della Lady l'anno scorso al Liceu di Barcellona, è perfettamente a suo agio nei panni di Katerina. Najmiddin Mavlyanov è un Sergej dalla voce e dall'aspetto prestante, mentre Alexander Roslavets dà vita a un Boris soltanto prepotente, per nulla fanfarone e libidinoso come richiesto. Con loro Yevgeny Akimov (Zinovij), Ekaterina Sannikova (Alsin'ja), Valery Gilmanov (ex Pope), Elena Maximova (Sonetka). E naturalmente il coro della Scala, che ha un ruolo fondamentale per tutta l'opera e in formazione ridotta canta anche il fantasma di Boris creando così un'aura da aldilà.
Grandi ovazioni a fine serata, in primis per Riccardo Chailly, per tutto il cast, specie per Sara Jakubiak, e il direttore del coro Alberto Malazzi. Ai quali si sono aggiunti Vassily Barkhatov alla sua prima regia scaligera, per lo scenografo Zinovy Margolin e la costumista Olga Shaishmelashvili. Al termine Chailly è ricomparso da solo a raccogliere gli applausi per suo ultimo Sant'Ambrogio. Ma lo rivedremo presto per Nabucco.