Wilco, l'avanguardia è nei sentimenti

Ode to Joy è il nuovo album dei Wilco: meno rumorosi, meno azzardati, più maturi – e sempre splendidi 

Wilco - Ode to joy - nuovo album
Disco
pop
Wilco
Ode to Joy
dBpm Records
2019

Lo scrivevamo qualche settimana fa, dopo l'ennesimo, memorabile concerto della più grande live band in circolazione: i dischi passano per i Wilco, e l'imprevedibile, inquieta genialità di A Ghost Is Born, di Yankee Hotel Foxtrot e prima ancora di Being There, ha ceduto via via il passo a una magistrale e pacificata maturità. Niente più rumorosi azzardi, insomma, niente più soluzioni spericolate e arrangiamenti sconnessi, niente più pop d'avanguardia, teologi, ceneri di bandiere americane e cuori da provare a spezzare, ma una (quasi) perfetta e meravigliosa consapevolezza.

Non fa eccezione l'undicesimo album (live esclusi) pubblicato da Jeff Tweedy e compagni, Ode to Joy, che arriva a tre anni dalla parentesi acustico-intimista del fragile Schmilco (il punto più basso assieme a Star Wars del dopo A Ghost Is Born) e riassetta felicemente le coordinate su livelli più consoni al blasone dei sei di Chicago e su atmosfere più famigliari.

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Ci si mette poco a sentirsi a casa. Fin dall'iniziale “Bright Leaves”, introdotta a colpi secchi di rullante da Glenn Kotche e sporcata qua e là dalle invenzioni meta-chitarristiche di Nels Cline. Ma viene facile affezionarsi anche alla deliziosa “Everyone Hides”, scritta nel 2014 e ripescata dalla colonna sonora di St. Vincent, film con Bill Murray e Naomi Watts, all'irresistibile "Love Is Everywhere (Beware)" e all'enigmatica "Hold Me Anyway" ("I'm like a hologram / Light is all I am"; e ancora: “High in an old dead tree / That plastic bag is me / That's where I want to be”), che sa di Jeff Tweedy e delle sue ataviche ossessioni dalla prima all'ultima nota.

Il meglio del disco però sta altrove. Nel crescendo dell'allucinata e dolcissima “Quiet Amplifier”, ad esempio, sei minuti di spettrale deriva tra Jim O'Rourke e i Velvet Underground (“I have a quiet amplifier / Silence seems more true / Every guitar is denied / I've tried, in my way, to love you”); nell'incedere pigro e allo stesso tempo marziale della sommessa “Before Us”; nell'attacco alla Byrds di “Citizens”; nelle spire beatlesiane della minacciosa “We Were Lucky”, squarciata nel mezzo da un terrificante solo di Nels Cline (una delle poche libere uscite concesse al chitarrista, il cui contributo all'album in termini di suono, al pari di quello di Glenn Kotche, è però decisivo). Infine, nell'epilogo a cuore aperto di “Empty Corner”, crepuscolare chiusura di un disco che più che un inno alla gioia, con i suoi espliciti riferimenti alla luce, al silenzio, all'assenza, alla distanza, con la sua saggia e pura semplicità, sembra un metafisico invito a dissolversi, a smaterializzarsi, a sparire; a osservare da lontano gli affanni del mondo e a sorridere delle altrui e proprie debolezze. 

L'avanguardia è nei sentimenti, diceva Massimo Urbani. Ci sono voluti un po' di anni e qualche mezzo passo falso, ma alla fine ci sono arrivati anche Jeff Tweedy e i Wilco.

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