Vince Staples, gangsta rave

Il nuovo lavoro del californiano Vince Staples: quando il rap incontra la techno

 

VInce Staples
Disco
pop
Vince Staples
Big Fish Theory
Def Jam
2017

Per definire l’ambientazione sono utili i rumori che si captano nel breve intermezzo autobiografico “Ramona Park Is Yankee Stadium”, collocato a metà sequenza: i garriti di un gabbiano e uno sparo. Serenità oceanica e storie di malavita. Bianco e nero. Fra i due estremi prende forma la “teoria del pesce grosso”, metafora spiegata in questo modo dall’autore in un’intervista: «Come i rappers sono percepiti e come percepiscono sé stessi». Benché appena ventitreenne, Vincent Jamal Staples già la sa lunga. Della vita di strada: padre spacciatore e membro di gang (i Crips, quelli “blu”, opposti ai “rossi” dei Bloods, per chi ricorda Colors di Dennis Hopper), dunque destinato alla galera. E del successo: aveva fatto il botto con l’album precedente, Summertime ’06, uscito nel 2015. Ricetta: stile asciutto, rime crude, istantanee da cronaca nera.

Sono trascorsi però trent'anni dall’epopea dei Niggaz Wit Atittudes, i “negri strafottenti” di Compton, diventati famosi mandando “affanculo la polizia”. E tutto è cambiato, o quasi. Lo dimostra Big Fish Theory: potente e autentico quanto Straight Outta Compton degli N.W.A., ma radicalmente differente. Non tanto nei versi e nella maniera di pronunciarli, bensì nell’habitat sonoro, fonte principale del quale è la musica da club: techno e house. Poco meno di un’eresia. Esemplare è “BagBak”: simbiosi avvincente di rap in versione hardcore e groove da rave. E tuttavia: “Muovi il corpo se sei venuto qui per la festa/In caso contrario scusami/Com’è possibile che me la passi bene quando vedo solo morte e distruzione?”, snocciola il protagonista a scanso di equivoci in “Party People”. Coppia motrice del disco è la dialettica fra avant-garde elettronica (tra i produttori impiegati, i “visi pallidi” Jimmy Edgar e Flume, ma c’è pure Justin “Bon Iver” Vernon, implicato nell’iniziale “Crabs in a Bucket”) e malumore del ghetto (“Li mettono in croce o li mettono in catene/La solfa è sempre la stessa: ‘Non è uguale a me’”, recita a un certo punto l’episodio citato).

Fa l’effetto del migliore Kanye West (quello di Yeezus, per capirsi), senza però la boria da superstar, semmai con il rigore di Kendrick Lamar, qui ospite nell’austera “Yeah Right”. E a proposito di pesi massimi: nell’incalzante “Love Can Be…” compare – per qualche secondo – addirittura Damon Albarn, restituendo così il favore a Staples, interprete di un cameo in Humanz dei Gorillaz. Una dozzina di pezzi in 36 minuti: opera essenziale, dove ogni dettaglio diventa necessario, Big Fish Theory è un album di grande valore, chiuso in bellezza da “Rain Come Down”, con un pizzico di gospel e un’ironica allusione all’afrocentrismo (“Sono il naso della Sfinge”).

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