Rough and Rowdy Ways, la biblioteca di Babele di Bob Dylan

A 79 anni compiuti, Bob Dylan aveva ancora in canna un capolavoro, Rough and Rowdy Ways 

Bob Dylan Rough and Rowdy Ways
Disco
pop
Bob Dylan
Rough and Rowdy Ways
Columbia
2020

E così, a 79 anni compiuti, Bob Dylanil primo musicista a vincere un Nobel per la letteratura, il singolo autore di canzoni più influente del Novecento – aveva ancora in canna un capolavoro. Tale è Rough and Rowdy Ways, il primo disco di inediti a otto anni dal comunque ottimo Tempest, il primo dopo il Nobel. In mezzo, come è abitudine del Dylan degli ultimi anni, oggetti più misteriosi, tra cover di Frank Sinatra e dall’American Songbook. Poi, nei giorni più cupi del lockdown, un singolo di lunghezza smisurata, "Murder Most Foul", il suo primo numero uno nella classifica dei singoli di «Billboard».

– Leggi anche: Dylan e “Murder Most Foul”: American Graffiti e canzone omerica

Sembrava un brano a sé, invece annunciava un album intero. E che album. Rough and Rowdy Ways non tradisce l’impianto sonoro del Dylan più recente, anche se il tipico sound Americana degli ultimi anni è rinfrescato qui e là da veri tocchi di classe: ad esempio la fisarmonica in “Key West”, o la barcarola che tiene il passo di I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You”.

Sono questi due gli episodi migliori, insieme a “My Own Version of You”, in cui Dylan collaziona pezzi di cadaveri come mette insieme pezzi di canzoni, libri, poesie. E dove arriva ad assomigliare a una versione di se stesso filtrato dal miglior Nick Cave.

«All through the summers, into January
I’ve been visiting morgues and monasteries
Looking for the necessary body parts
Limbs and livers and brains and hearts
I'll bring someone to life, is what I wanna do
I wanna create my own version of you […]

I'll take the scar-faced Pacino and the Godfather Brando
Mix it up in a tank and get a robot commando
If I do it up right and put the head on straight
I'll be saved by the creature that I create». “My Own Version of You”

Al centro dell’album, come in tutto l’ultimo periodo dylaniano, c’è dunque l’America, i suoi miti, i suoi autori, la sua musica. E se si può riconoscere una chiave coerente in Rough and Rowdy Ways, questa è sovente un gusto postmoderno (nel senso più puro che il termine aveva in letteratura) per la citazione, il pastiche, per il riferimento più o meno criptico, per il disseminare le canzoni di riferimenti ad altre canzoni, a libri, a fatti di cronaca…Ogni verso, ogni blues, ogni citazione apre porte verso altra musica, altra letteratura, altra poesia – dall’ormai borgesiano catalogo di Dylan stesso alle infinite scaffalature della sua personalissima biblioteca di Babele, nel segno di una continua vertigine di rimandi. 

E si finisce poi, indizio dopo indizio, a cercare di dare coerenza al tutto e a leggere le canzoni come se fossero messaggi che Dylan ci manda su di sé, uno dei pochissimi accessi (una sola intervista rilasciata per Rough and Rowdy Ways, la prima da molto tempo) per capire sia l’artista Bob Dylan sia l’uomo Bob Dylan, entità che ci appaiono ormai così strettamente intessute tra loro – perché Dylan ha voluto che lo fossero – da non poter più capire dove finisca l’uno e cominci l’altro.

E allora, certo, Dylan parla di sé quando – nell’apertura del disco – dice “I Contain Multitudes” citando Whitman. Parla delle sue passioni quando si dà al name dropping più estremo passando con nonchalance da Al Pacino ad Anna Frank, da Jimmy Reed a Edgar Allan Poe. Sta riferendosi al suo percorso quando, parlando attraverso Jimmie Rodgers nel titolo dell’album, evoca le sue rough and rowdy ways.

«The railroad trains are calling me away
I may be rough I may be wild I may be tough and countrified
But I can't give up my good old rough and rowdy ways». Jimmie Rodgers, “My Rough and Rowdy Ways”

E naturalmente è lui il pirata-filosofo del pezzo che chiude il disco, “Key West (Philosopher Pirate)”. (“Murder Most Foul”, a cui è dedicato un disco a parte, come fosse la facciata b Blonde on Blonde con “Sad-eyed Lady of the Low Land”, è davvero un universo a sé). In “Key West”, tra Beat generation, Radio Luxembourg e la Summer of Love (e come non pensare anche a Hemingway, parlando di Key West?) Dylan sembra infine allontanarsi verso Ovest, verso il tramonto, una silhouette scura su un cavallo scuro.

«I was born on the wrong side of the railroad track
Like Ginsberg, Corso and Kerouac
Like Louis and Jimmy and Buddy and all the rest […]

Key West is the place to be
If you're looking for immortality
Key West is paradise divine
Key West is fine and fair
If you lost your mind, you'll find it there
Key West is on the horizon line».

Un congedo? Forse. O forse no: quando uscì Tempest, molti commentatori non poterono mancare di rilevare la coincidenza del titolo con l’ultima opera di Shakespeare, leggendo la scelta come un omaggio al Bardo – con cui spesso Dylan si è identificato – e come l’annuncio di una fine prossima. Dylan rispose, prontamente, che il titolo dell’opera di Shakespeare è The Tempest, e che è tutta un’altra cosa.

E in effetti è ancora qua. 

(E del resto, il titolo della canzone di Jimmie Rodgers è MY Rough and Rowdy Ways”. Ed è tutta un’altra cosa).

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

pop

Quale St. Vincent?

All Born Screaming è il “brutale” settimo album di Annie Clark, una nuova incarnazione di St. Vincent

Alberto Campo
pop

Il pop “emotivo” di Claire Rousay

sentiment è il nuovo album dell’artista transgender canadese

Alberto Campo
pop

Akoma, il cuore pulsante di Jlin

Il nuovo lavoro della produttrice afroamericana Jlin, con comparsate di Björk, Philip Glass e Kronos Quartet

Alberto Campo