Melech Mechaya, klezmer alla portoghese

Uno splendido disco (Felmay) per il gruppo lusitano, che va ben oltre i cliché del genere

Felmay Melech Mechaya
Disco
world
Melech Mechaya
Aurora
Felmay
2017

Non sempre gli annunci un po' trionfalistici sulle nuove uscite discografiche colgono nel segno: un po' d'enfasi mercantilistica va bene, ma spesso l’ascolto e il riascolto correggono il tiro di certe affermazioni un po' perentorie. A volte però succede anche il contrario, ed è il caso di questo splendido cd, che festeggia tra l’altro un importante traguardo: i dieci anni di attività filata dei Melech Mechaya.

Si tratta del più significativo gruppo di klezmer operante in Portogallo, e il radicamento in terra lusitana fa bene a una musica che già in origine ha vissuto e s'è sviluppata (fin quando ha potuto: poi sono intervenute le orde hitleriane) nella più vertiginosa contaminazione di spunti, idee, estetiche musicali, pur mantenendo sempre una sua immediata riconoscibilità.

Dunque Aurora, nuovo disco in studio, marca il decennale per i “re della festa”, come suona il nome tradotto: e chiariamo subito che l’aggettivo “sorprendente” usato per gli annunci calza come un guanto sulla nuova creatura sonora, che peraltro vede dietro il banco dei missaggi mani e orecchie ben attente. Ci s'è messo Tony Harris, l’uomo che ha costruito più d'un bel suono finale a gente come i R.E.M. o Sinead O' Connor. “Sorprendente”, perché chi crede di ritrovare qui il consueto alternarsi di dolentissime curve melodiche alternate a ultra veloci brani per la danza in salsa ebraica si sbaglia.

Il Klezmer c'è, e possente, a partire dalla maestosa ouverture con il brano che dà titolo, poi ripresa anche in chiusura. E ci sono anche le ballate, come "Boom", ospite Noisery alla voce. Che potrebbe trovarsi anche su un disco di Greg Brown, o di qualsiasi altro bravo autore contemporaneo di quelli che sanno reinventarsi melodie memorabili dal nulla, dalle consuete cadenze perfette. Poi c'è il piano eccellente di Filipo Melo, e l’altra notevole voce ospite quella di Lamari de Chambao. I guizzi in sede di arrangiamento sono però il pepe che insaporisce il tutto: ad esempio, "Poça de Dominó" sembra incorporare ben più d'un tratto di minimalismo arioso, come se i Melech Mechaya si fossero trovati a una jam sorridente con la Penguin Cafe Orchestra. E poi saettano sei ottavi poco canonici, ed echi tutt’altro che cartolineschi di fado, com'è giusto che sia. Comunque lo guardiate, Aurora è un gran disco. Il loro migliore, fino a prova contraria e futura.

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