Low, un capolavoro tira l'altro

In Hey What i Low perfezionano la formula sperimentata nel precedente Double Negative

Low Hey What
Low (foto Nathan Keay)
Disco
pop
Low
Hey What
Sub Pop
2021

Nel 2018 avevamo nominato il precedente Double Negative migliore album dell’anno: scelta confortata mesi dopo ammirandone la trasposizione dal vivo, esperienza davvero catartica (a proposito, segnate in agenda l’appuntamento del 22 maggio 2022 al Teatro Duse di Bologna, unica tappa italiana del tour europeo).

– Leggi anche: I Low saranno la prossima Tradizione Americana

Quel disco aveva segnato uno scarto nell’avventura artistica dei Low: evoluzione estrema del cosiddetto “slowcore” degli esordi (appellativo nondimeno sconfessato dagli interessati), creato in opposizione all’impeto del grunge allora in voga, caratterizzata dal crescente accento elettronico dovuto all’influsso esercitato dal produttore B.J. Burton, avvistato sovente al fianco di Bon Iver (ma anche delle reginette pop Taylor Swift e Charli XCX).

Hey What – album numero 13 dei Low in 27 anni di un’attività svolta interamente in ambito indipendente, dal 2005 su Sub Pop, per cui debuttarono con The Great Destroyer, tuttora massimo best seller in carriera – prosegue lungo quel solco, perfezionando la formula con sonorità ancora più “difettose”, ma restituendo d’altra arte centralità alle voci dei protagonisti: Alan Sparhawk e Mimi Parker, coppia in musica e nella vita privata genitori di due figli. «Ho dormito accanto a te per quello che adesso sembra un migliaio di anni», conferma un verso di “Don’t Walk Away”.

A renderli speciali, oltre alla simbiosi umana, è la condivisa pratica religiosa da fedeli mormoni: traggono da essa l’arcaica potenza liturgica del canto, esemplificata in maniera devastante dal brano cui è spettato il ruolo di battistrada, “Days Like These”.

Recita al principio quella canzone: «Quando pensavi di aver visto tutto, ti trovi a vivere in giorni come questi». Se Double Negative era maturato sotto l’ombra torva della presidenza Trump, questo nuovo Hey What ha preso forma durante la pandemia. Aleggia perciò sull’opera una sensazione di perdita: comincia parlando – in “White Horses” – di «conseguenze dell’abbandono» e termina dicendo «dev’essere svanito» al culmine di “The Price You Pay (It Must Be Wearing Off)”, mentre uno degli episodi chiave – elegia spirituale avviluppata dentro un montante bordone rumorista – è intitolato appunto “Disappearing”.

Le dieci tracce in scaletta scorrono in poco più di tre quarti d’ora senza soluzione di continuità, tipo una suite, attraversando il pathos sommesso di “All Night” e sfociando nelle minacciose sembianze metal di “More”, in contrasto impressionante con la stoica compostezza della voce femminile.

Sublime esercizio di minimalismo massimalista, o viceversa, se preferite, Hey What precisa il possibile punto d’equilibrio fra classica tradizione americana (i Low arrivano pur sempre da Duluth, patria di Dylan) e impellente senso del futuro. Evidentemente, un capolavoro tira l’altro.

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