Le memorie di metallo dei Matmos
Metallic Life Review è il nuovo album del duo statunitense Matmos

In attività da un trentennio esatto, ultimamente nei ritagli di tempo concessi dalle rispettive carriere accademiche alla Johns Hopkins University di Baltimora, Martin Schmidt e Drew Daniel hanno realizzato una quindicina di album sotto l’intestazione Matmos, sovente opere a soggetto basate sulla natura delle fonti sonore impiegate.
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Maestri del campionamento, i due hanno elevato via via al rango di temi conduttori le apparecchiature chirurgiche (in A Chance to Cut Is a Chance to Cure del 2001), la lavatrice di casa (Ultimate Care II, 2016) e le materie plastiche (Plastic Anniversary, 2019).
Alla serie di aggiunge ora Metallic Life Review, confezionato – suggerisce il titolo – partendo da oggetti in metallo di varia estrazione, dal pentolame domestico agli involucri delle bobine custodite nello studio Ina GRM creato a Parigi nel 1958 da Pierre Schaeffer, indizio eloquente della prossimità ai canoni della musique concrète.
Sul piano concettuale, d’altro canto, il riferimento esplicito è alla carrellata di reminiscenze in flashback – life review, appunto – che il cervello umano innesca nella fase di transito dalla vita alla morte. In questo caso si tratta di ricordi in formato audio, accumulati dal duo nell’arco di quasi vent’anni in giro per il mondo. Durante i quattro movimenti della suite che dà nome al disco e ne occupa interamente la seconda metà incontriamo ad esempio rumori ricavati dal reticolato di protezione delle catacombe di San Sebastiano a Roma e da un calice rinvenuto nella cappella votiva del castello Civitella Ranieri nei pressi di Umbertide, in Umbria, accanto ai rintocchi delle campane nella chiesa di Anthien, in Francia.
Sulla carta ciò può far pensare a un arzigogolo mentale, quando in realtà l’ascolto offre un viaggio avvincente fra suggestioni ambient, impennate avant-garde e accelerazioni ritmiche che sfocia in un finale da cerimonia zen dentro un’officina taylorista. A tale proposito, in chiave “industriale”, nella sequenza di cinque tracce che costituisce la prima parte del lavoro spicca l’apologo technoide “The Rust Belt”, come viene chiamata cioè oltreoceano la zona del Midwest a vocazione manifatturiera corrosa dagli effetti combinati di delocalizzazione e automazione.
Qui e là affiorano dal tessuto musicale timbri di strumenti tradizionali: in “The Chrome Reflects Our Image” ecco una chitarra elettrica la cui modalità “twang” rimanda alle atmosfere di Blue Velvet o Twin Peaks, poiché il brano è dedicato espressamente a David Lynch, mentre in “Steel Tongues” e “Changing States” si percepisce l’eco della pedal steel manovrata da Susan Alcorn, a sua volta destinataria di un’epigrafe, essendo scomparsa poco dopo aver registrato il proprio contributo.
A dispetto dell’apparenza asettica, dunque, Metallic Life Review non elude affatto la sfera dell’emotività e dichiara anzi con fierezza la passione civile degli autori: in calce alle note di copertina sta scritto l’inequivocabile “death to fascism”.