La canzone interiore di Kelly Lee Owens

Nel suo secondo album, Inner Song, la produttrice gallese omaggia i Radiohead e duetta con John Cale

Kelly Lee Owens
Disco
pop
Kelly Lee Owens
Inner Song
Smalltown Supersound
2020

Strano modo di cominciare un disco, per di più assai atteso, poiché l’unico precedente realizzato dalla produttrice gallese Kelly Lee Owens – senza titolo, nel 2017 – aveva attirato parecchia attenzione su di lei per il gusto ingegnoso e garbato nell’associare i codici della club culture alla forma canzone: un brano altrui, “Arpeggi” da In Rainbows dei Radiohead, rimodulato su scala elettronica, scarnificato e privato della parte vocale. E sì che, rispetto all’altro lavoro, Owens ha scelto di porre maggiore evidenza sulla propria voce, allora impiegata essenzialmente come strumento e invece adesso in primo piano negli episodi dotati di testo. Ad esempio, sulla scia dell’introduzione di cui si è detto, ecco “On”: madrigale evanescente che a metà strada accelera con naturalezza su un’incalzante cadenza techno. Transizione di stato che simboleggia la natura stessa dell’album.

Kelly Lee Owens maneggia con disinvoltura e competenza le formule della dance (qualità constatate da chi poté assistere tre anni fa alla sua esibizione durante il festival Club To Club), rendendole però funzionali a un disegno più ampio. Lo dimostra qui “Melt!”, dove lo “scioglimento” dell’intestazione è riferito al ghiaccio, alludendo in maniera trasparente agli effetti del cambiamento climatico.

Ai pezzi ritmati e talvolta euforici – “Jeanette” su tutti, affine alle migliori produzioni marchiate The Knife – si alternano ballate meditative da “dopo scienza”, per usare l’espressione coniata nel 1977 da Brian Eno, tipo “Re-Wild” o “L.I.N.E.”, quest’ultima piena di grazia, anche quando un verso recita: “La morte comincia dal compromesso” (ricordiamo per inciso che, prima di dedicarsi alla musica, Owens prestò servizio volontario da infermiera ausiliaria nel reparto oncologico del Christie Hospital di Manchester, città in cui viveva allora).

Dovendo cercare il cuore emotivo dell’opera, tuttavia, sceglieremmo “Night”: vuoi per il sensuale minimalismo del crescendo che lo anima, vuoi per il senso della narrazione (un mantra laconico che ripete “Sto così bene da sola” salvo aggiungere poi “Con te”).

Ovvio elemento di attrazione è viceversa il cammeo di John Cale, gallese anch’egli e protagonista dello spoken word – parzialmente in cimrico, appunto – declamato in “Corner of My Sky”.

Da questo insieme di quiete ed eccitazione, dolcezza e austerità, trapela il complesso e maturo profilo espressivo di un’artista trentaduenne che intona la propria “canzone interiore” con sensibilità e determinazione.

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