John Cale, il passato risponde presente

L’82enne artista gallese pubblica il nuovo album POPtical Illusion

John Cale
Disco
pop
John Cale
POPtical Illusion
Double Six
2024

A 82 anni compiuti, tre quarti dei quali trascorsi in carriera, John Cale non ha alcuna intenzione di fermarsi. Al contrario, intensifica l’attività e così dopo Mercy, uscito nel gennaio 2023, ecco POPtical Illusion, come il predecessore realizzato attingendo al repertorio di provini – un’ottantina complessivamente – accumulato durante il lockdown: «Un periodo per me molto fertile», ha spiegato a “Uncut”.

Se allora scelse di avere accanto musicisti appartenenti a generazioni successive (tipo Actress, Animal Collective, Fat White Family, Laurel Halo, Sylvan Esso e Weyes Blood), in questo caso ha preferito cavarsela da sé, coadiuvato dall’inseparabile Nita Scott, manager e adesso anche produttrice.

Fin dall’intestazione, che immaginiamo riferita ad Andy Warhol, nel disco riecheggia un dialogo costante con il passato: “Edge of Reason”, evanescente ballata esistenzialista, cita ad esempio l’ouverture di Fear, album da lui pubblicato mezzo secolo fa, aggiungendo alla “paura” la “giustizia” e la “rabbia” nell’elenco delle “migliori amiche dell’uomo”, e lo scenario bellico di “Mercenaries” (da Sabotage/Live, 1980), cantando “Sono tutti pronti per la guerra, gli stivali allacciati, credono alla propaganda”.

Analogo il contesto narrativo in “Company Commander”, episodio centrato su una figura militaresca affine al Kurtz/Brando di Apocalypse Now: “C’è un comandante in capo che fuma erba stantia, gli piacerebbe farvi ammalare facendovi accapponare la pelle”. L’artista gallese non è affatto pacificato, insomma: lo comunica con voce dolente su accordi di organo nel decorso minimalista di “I’m Angry” (“Sono incazzato, solo e incazzato”). In termini di suono quello stato d’animo prende forma nel feroce impulso rock di “Shark-Shark”, sintonizzato sulla lunghezza d’onda “vellutata” di “Sister Ray” e scandito dall’invocazione autodistruttiva “Squalo-squalo portami giù”.

Altrove, Cale sviluppa il tipico canone “pop da camera” con la disinvolta solennità di “All to the Good” e nell’iniziale “God Made Me Do It (Don’t Ask Me Again)”, quando ne si apprezza l’inconfondibile intonazione baritonale, mentre nel seguente “Davies and Wales” riafferma il proposito autobiografico, menzionando nel titolo il cognome della madre e il luogo di origine, ed esorta a rendere il futuro migliore del passato, perché – chiarisce “Calling You Out” – “C’è sempre spazio per il cambiamento, amico mio”. Su un fondale generalmente cupo luccica a intermittenza qualche barlume di speranza: “Cammin facendo vediamo la luce, poi perdiamo il controllo e saltiamo una staccionata”, recita un verso di “How We See the Light”.

In chiusura, su un fraseggio circolare di pianoforte, sembra però volersi sottrarre alle responsabilità: “Le parole non sono venute”. E già aveva proclamato – per bocca del birraio Palla-di-funk – “Non ho niente da dirvi” nell’elegiaco mélo “Funkball the Brewster”, aperto in tono di sfida: “Mandatemi all’inferno, farò del mio meglio per andarci”.

Altro alter ego è il piromane protagonista in “Setting Fires”, che fra arpeggi sintetici, dissonanze di chitarra e un’allusione a Jane Austen confessa: “Dò fuoco agli alberi, incendio tutte le case, le guardo bruciare al mattino, venite a dare un’occhiata”. Esibendo la solita – e impareggiabile – qualità di scrittura, John Cale riesce a cogliere dunque lo spirito dei tempi: POPtical Illusion è il ruggito di un vecchio leone indomabile.

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