Il romanticismo radicale di Fever Ray

In Radical Romantics la svedese Karin Dreijer proclama sovversivo l’amore

Fever Ray Radical Romantics
Disco
pop
Fever Ray
Radical Romantics
Rabid
2023

Al terzo lavoro da solista come Fever Ray, dopo aver esplorato nel disco d’esordio del 2009 l’esperienza contraddittoria della maternità e dichiarato fluidità di genere e identità plurale nell’epifania queer del seguente Plunge (2017), in Radical Romantics Karin Dreijer concentra l’attenzione sull’amore.

– Leggi anche: Fever Ray, la politica del sesso

L’accezione non è affatto leziosa, prendendo spunto dal saggio della scrittrice femminista bell hooks Tutto sull’amore: «È un’azione, un verbo, qualcosa che facciamo, ma richiede tempo ed è difficile trovarne per coltivare buone relazioni dentro il nostro sistema capitalistico», ha spiegato in un’intervista a “The Guardian”.

Un agente politico, dunque: addirittura sovversivo. Il brano d’apertura, “What They Call Us”, introdotto da una frase di scusa (“Anzitutto vorrei dire che mi dispiace, ho usato ogni trucco possibile”), descrive la natura del sentimento: “Ti posso abbracciare per un minuto? Certe cose non sono facili da riparare. La persona arrivata qui era a pezzi. Puoi aggiustarla? Puoi prendertene cura?”.

Lo fa alterando la voce con effetti che distorcono le formanti: tratto caratteristico del suo stile espressivo fin dai tempi di The Knife, duo in maschera creato insieme al fratello minore Olof, tornato nell’occasione ad affiancarla in qualità di coautore e produttore nei primi quattro episodi della sequenza. La sensazione è perciò familiare, in particolare nel techno pop insidioso e intrigante di “Shiver”, affilato quanto le performance migliori della lama originaria, oppure in “Kandy”, in cui l’accento latino delle percussioni e l’indole sensuale dell’intonazione – “Certe ragazze ti faranno arrossire, certe ragazze ti daranno i brividi” – plasmano un tipo di seduzione che rievoca “Pass This On”, classico della coltelleria svedese.

Lo scenario muta drasticamente nel successivo “Even It Out”, frutto dell’intervento di Trent Reznor e Atticus Ross: cadenza marziale, arrangiamento cupo e insolenza vocale lo collocano in un’area limitrofa al post punk industriale degli anni Ottanta, enfatizzando il minaccioso messaggio anti-bulli di mamma Karin (“Non c’è spazio per te, sappiamo dove vivi”).

L’atmosfera si svelenisce poi in “Looking for a Ghost”, grazie al contributo di Nídia, esponente della Batida di Lisbona, e diventa persino ammaliante in “North” (“Chiamo il sesso nord, è una strada da attraversare”), mentre nell’intermedio “Carbon Dioxide” – marchiato al mixer dal britannico Vessel – il ritmo si fa incalzante e culmina in un vertiginoso climax trance da rave (“Trattengo il cuore durante la caduta”).

Non servono parole all’epilogo: Dreijer gorgheggia per sette minuti abbondanti sul flusso ondulato di un bordone elettronico, ipnotizzando l’ascoltatore e conducendolo – annuncia il titolo – “in fondo all’oceano”.

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