Il ritorno di Oumou Sangaré

Un disco politico della diva del Mali, dopo otto anni di silenzio
 

Oumou Sangaré
Foto di Benoit Peverelli
Disco
world
Oumou Sangaré
Mogoya
No Format
2017

Armonizzare tradizione e modernità è un esercizio complicato: il rischio di combinare pasticci si nasconde dietro l’angolo. Va ammirato dunque il modo nel quale l’ha affrontato Oumou Sangaré: personaggio leggendario in Mali per più di una ragione. Divenuta cantante per necessità (dovendo sostenere la madre, cantante anch’ella, abbandonata dal marito con quattro figli a carico), appena ventenne già era un caso, esportato poi con successo oltre i confini del continente dall’etichetta londinese World Circuit, su consiglio del “guru” Ali Farka Touré, grazie agli album Ko Sira (1993) e Worotan (1996).

E ciò per mezzo di canzoni dal fiero temperamento femminista, in cui poligamia e infibulazione diventavano barriere da abbattere sulla strada dell’emancipazione. Non fosse bastato, si è tramutata in imprenditrice, aprendo un hotel, lanciando un modello di automobile e avviando un’azienda agricola.

Questo il motivo di un silenzio discografico durato otto anni: tanti ne sono trascorsi da Seya al lavoro edito in questi giorni dall’indipendente parigina No Format. Francese è anche il trio musicale A.l.b.e.r.t. che l’ha affiancata nelle sedute di registrazione, in parte organizzate a Stoccolma con il produttore locale Andreas Unge: le sfumature “occidentali” del suono arrivano di là, ma sono amalgamate in maniera equilibrata con la strumentazione africana. Esemplare in quel senso è “Kamelemba” (che esorta le ragazze a cautelarsi dalle maternità precoci), brano dove lo ngoni dialoga con naturalezza insieme alla chitarra elettrica e al sintetizzatore.

Altrove, in “Yera Faga” (scritta pensando alla piaga dei suicidi) e nell’incalzante “Fadjamou”, complice la presenza alla batteria dello statuario Tony Allen, si percepisce nitidamente l’eco dell’afrobeat.

Il dosaggio degli ingredienti è quasi ovunque impeccabile, cosicché gli accenti acustici dell’ammaliante episodio che conclude e intesta il disco possono convivere senza attrito con lo slancio afro pop di “Djoukourou”. Radicato nell’esperienza familiare (“Minata Waraba” è dedicato alla figura materna, simboleggiata nel titolo dal vocabolo “leonessa”) e consapevolmente attento alla difficile condizione del proprio paese (“Miali Niale” invoca la riconciliazione nazionale), Mogoya – espressione in lingua bambara traducibile come “la gente oggi”, in termini di relazioni umane – è un album al tempo stesso denso di contenuto e lieve nella forma. Un nitido ritratto dell’autrice, insomma.

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