I Calibro 35 rapinano il jazz
In Exploration il supergruppo cinefilo accende la tv a suon di fusion, da Lucio Dalla a Mixer

Al teatro Colosseo, ospiti del Torino Jazz Festival, i Calibro 35 si sono presentati sul palco in giacca e cravatta, ma rientrando in scena al momento del bis indossavano passamontagna come fossero rapinatori.
Tali si considerano nei confronti del jazz medesimo, soggetto dell’Ep autunnale Jazzploitation, dove riprendevano fra le altre cose Générique di Miles Davis, dalla colonna sonora destinata ad Ascensore per il patibolo di Louis Malle. “È un ritorno a casa con il passaporto falsificato bene”, mi aveva spiegato alla vigilia del concerto Massimo Martellotta, manovratore di chitarra e tastiere, “l’idea è che il jazz sia un'ottima scusa per fare quello che ci piace: è libertà, improvvisazione, ma anche arrangiamento maniacale”.
Quei principi informano il nuovo album Exploration, nel quale la continuità con la proverbiale vocazione “cinefila” della band è simboleggiata dalla figura di Piero Umiliani, che nel 1968 allestì a Roma il Sound Work Shop, studio divenuto nel tempo leggendario: coordinato al mixer dal deus ex machina Tommaso Colliva, il quartetto ha registrato là il disco alla vecchia maniera.
A testimoniare il legame ombelicale con il compositore fiorentino sono due brani degli undici in programma: “Gassman blues”, da lui prodotto nel 1958 su commissione di Mauro Monicelli, che gli aveva affidato il compito di musicare – pressoché da esordiente – I soliti ignoti, e “Discomania”, negli anni Ottanta sigla finale di “90° minuto”, qui ricalibrato in chiave dichiaratamente “afrobeat”.
Non è l’unica divagazione televisiva in scaletta: in chiusura troviamo “Lunedì cinema” di Lucio Dalla, il cui inconfondibile scat è reso nella circostanza con sorprendente efficacia dal complice siciliano Marco Castello, e in precedenza c’è modo di gustare un consommé acido e dinamico di “Jazz Carnival”, standard dei brasiliani Azymuth celebre da noi per essere stato dal 1980 ouverture di “Mixer”, rotocalco condotto da Giovanni Minoli.
Dal retrobottega vintage del piccolo schermo affiora inoltre il memorabile tema firmato nel 1967 da Lalo Schifrin per il telefilm “Mission Impossible”, rimaneggiato con irruenza quasi punk, mentre a rafforzare il fronte cinematografico provvede “Coffy Is the Color”, pezzo forte del corredo musicale creato nel 1973 dal vibrafonista Roy Ayers per il film che tramutò Pam Grier in stella della blaxploitation, trasfigurato in Exploration dal malevolo vocoder incaricato di rimpiazzare i gorgheggi originari di Dee Dee Bridgewater.
Coetaneo e stilisticamente affine è il classico di Herbie Hancock “Chameleon”, in questo caso ridotto all’osso rispetto all’abbondante quarto d’ora dell’epoca, ma incardinato comunque sul tipico riff di basso sintetico, che rimane gommoso e assume addirittura carattere fumettistico zigzagando fra svisate psichedeliche. Di ascendenza fusion è pure “Nautilus”, che Bob James confezionò nel 1974 intorno a un fraseggio di Fender Rhodes replicato fedelmente nell’occasione, accentuando il groove sottostante con l’impareggiabile tambureggiare di Fabio Rondanini e la trama cavernosa ordita dal nuovo bassista Roberto Dragonetti.
Completa il repertorio un trittico di composizioni autografe: “Pied de Poule”, in atmosfera lounge da safari lunare di scuola Air, “The Twang”, contraddistinta dall’effetto di chitarra dichiarato nel titolo, e “Reptile Strut”, scattante funk con decorazioni “prog” collocato in apertura di sequenza.
La sensazione è che, superato il varco della maggiore età (l’atto di nascita data 2007), il pregiato supergruppo nostrano intenda concedersi massima facoltà di movimento.
Mi diceva Enrico Gabrielli, pluristrumentista tuttofare e punto focale della formazione: “Siamo diventati grandi e abbiamo una grossa incognita interiore da esplorare, quindi ora navighiamo a vista nel mare magnum della raggiunta maturità”.