Damon Albarn, ecologia e sentimento

L’album “islandese” di Damon Albarn: The Nearer the Fountain, More Pure the Stream Flows

Damon Albarn nuovo album
Damon Albarn (foto Linda Brown Lee)
Disco
pop
Damon Albarn
The Nearer the Fountain, More Pure the Stream Flows
Transgressive
2021

Potremmo cominciare dal “National Geographic”, al quale Damon Albarn ha concesso in estate un’intervista in cui ha espresso il proprio preoccupato auspicio: «Confido che alla fine capiremo quanto tutto questo sia fragile».

– Leggi anche: L'afrofuturismo consapevole di Damon Albarn

Ispirato dalla medesima rivista in gioventù, quando stava sulla cresta dell’onda con i Blur, scelse di concedersi una vacanza in Islanda: luogo del quale s’invaghi a tal punto da prendervi casa e diventarne – nel gennaio scorso – cittadino onorario. Là si era recato prima della pandemia per lavorare a un progetto commissionatogli – in termini di “carta bianca” – dalla Fête des Lumieres di Lione, registrando musiche in modalità stile libero con strumentisti del posto.

Per ragioni intuibili, non se n’è fatto poi nulla, ma rielaborando quel materiale l’artista inglese ha dato forma al secondo album intestato a suo nome e intitolato citando versi di John Clare, poeta romantico del XIX secolo: “Più vicina la fonte, più puro scorre il ruscello” (Love and Memory, 1829). Apre la sequenza il brano omonimo, dove su un brumoso fondale ambient il protagonista intona un’elegia rivolta a qualcuno che ha affrontato “il viaggio oscuro che non lascia ritorno”: “È inutile che io ti pianga, ma non si può farne a meno, pensando alla vita che ai bei tempi rideva sul tuo viso”.

Molto probabile sia indirizzata a Tony Allen: suo partner nelle avventure di The Good, The Bad & The Queen e Rocket Juice and The Moon. Anziché la sanguigna batteria afrobeat dell’amico scomparso, a scandire i ritmi è qui una preistorica drum machine, ad esempio nella rumba esistenzialista di “The Cormorant”, in cui lo ascoltiamo confessare: “Ora vado alla deriva sognando a occhi aperti”. L’umore del disco è in genere malinconico, benché non manchino i guizzi pop: “Royal Morning Blue” il più estroverso, con ritornello solare e contrappunto di fiati.

Intervallate a strumentali, tipo le prove d’orchestra quasi cacofoniche di “Combustion” o lo spleen da luna park di “Giraffe Trumpet Sea”, risaltano alcune altre prelibatezze: dal valzer di sapore vintage concertato in “Darkness to Light” al garbato esotismo evocato dalle cadenze latine di “Polaris” e “The Tower of Montevideo”.

Da quest’ultimo trapela tuttavia lo zeitgeist che permea il presente: “Una volta c’era un cinema, facevamo feste”, recita Albarn con amarezza, distante tanto dall’effervescenza postmoderna dei Gorillaz (a proposito, sta per uscire la riedizione del primo album in occasione del ventennale) quanto dalla baldanza Britpop dei Blur (è passato un trentennio esatto dal debutto con Leisure), benché la cifra autoriale rimanga riconoscibilissima.

Il tono dell’opera è confidenziale, persino più che nel precedente Everyday Robots (2014): allora aveva messo in copertina sé stesso, seduto a capo chino su uno sgabello, mentre adesso si è defilato per farci osservare uno scorcio di selvaggia natura islandese. È la “fase Attenborough” del suo cammino, nella definizione ironica di “NME”, evidentemente.

The Nearer the Fountain, More Pure the Stream Flows non sembra destinato a cambiare il corso degli eventi, né costituisce un’esperienza catartica, ma è come rivedere un vecchio amico e sentire cosa gli frulla per la testa: scalda il cuore. Accade in particolare all’epilogo, in “Particles”, tra piano Wurlitzer e voce empatica, dopo di che – nella versione cd – sbuca fuori una traccia fantasma lunga una ventina di minuti, fra rumori da savana, sonorità avant-garde e profumo di jazz: musica in libertà.

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