Beck perso nell’iperspazio

Un mal di vivere da superattico che suscita poca empatia attraversa il quattordicesimo album Beck, prodotto da Pharrell Williams

Beck Hyperspace
Disco
pop
Beck
Hyperspace
Capitol
2019

Ormai prossimo alla soglia critica dei 50 anni e reduce da alcuni sussulti nella vita privata (si è appena separato dalla compagna Marissa Ribisi, abiurando Scientology, nella cui orbita era stata lei a condurlo), Beck Hansen ne riversa l’eco emotiva su disco proiettandosi – dichiara il titolo – nell’Iperspazio. Allude dunque al futuro il quattordicesimo album della sua carriera trentennale, benché la musica contenuta sappia piuttosto di passato, quasi che nella circostanza l’artista californiano avesse voluto condensare il senso di esperienze antecedenti. “Saw Lightning”, per dire, con un fraseggio blues di slide guitar su cadenza elettronica, suona come una versione del suo classico originario “Loser” aggiornata al XXI secolo.

Distanziandosi dal precedente Colors, il marcato accento pop del quale aveva fruttato un paio di Grammy Awards, ci s’immerge qui in un umore malinconico simile a quello di Morning Phase (2014) o Modern Guilt (2008). A tratti sembra rievocato addirittura lo spleen amniotico di Sea Change (2002), questa volta senza ricorrere tuttavia ad arrangiamenti orchestrali, poiché l’arredo strumentale – per larga misura dovuto alla produzione di Pharrell Williams, partnership inseguita da Beck per un ventennio – è di natura eminentemente sintetica, eccezion fatta per la chitarra acustica.

Esemplare della combinazione tra i due fattori è “Die Waiting”: ballata dove compare ospite la giovane diva Sky Ferreira. E su lunghezze d’onda analoghe si muove l’ariosa “Stratosphere”, con altro cammeo di un peso massimo, ossia Chris Martin dei Coldplay in veste di corista, mentre il protagonista canta: “Nella stratosfera, un posto in cui potrei scomparire”. Lo stato d’animo è perciò angustiato, alternando “luoghi oscuri” a “giornate insignificanti”, che spingono l’autore ad affermare: “Potreste conoscere il mio nome, ma non conoscete la mia mente”.

Hyperspace è pervaso così da una sorta di esistenzialismo patinato, dall’Hyperlife del breve episodio iniziale (“Più veloce, più lontano, più a lungo, più forte, voglio crescere e crescere ancora”) all’“eterno nulla” descritto all’epilogo con vibrazione gospel (“Aspettavano tutti me, come un’ovazione trionfale per il funerale del sole”).

Un mal di vivere da superattico che suscita poca empatia.

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