Alessia Tondo, il quotidiano e il popolare
Splendido esordio con Sita per Alessia Tondo, voce del Canzoniere Grecanico Salentino
Qualche anno fa Piers Faccini, notevole songwriter cresciuto con tante identità europee a costruirne una sola (la Francia, l’Italia, l’Inghilterra) chiacchierando con chi scrive queste note raccontò di essere irresistibilmente attratto dai “canti sul tamburo” del Sud d’Italia. Per quale ragione di carsici rimescolamenti del sangue non è dato sapere, ma sta di fatto che Faccini, delicatissimo, quasi incantatorio cesellatore di piccole melodie crepuscolari con tanti echi dylaniani dentro, poco dopo quella chiacchierata si mise al lavoro, e riuscì nell'impresa. Coniugare una scrittura tersa e gentile con le fiere impennate sanguigne di chi appoggia la voce arrochita sui tamburi a cornice.
Premessa necessaria per raccontare di questo lavoro che, in maniera simmetrica, traccia il medesimo percorso, ma specularmente. Perché la vocalist Alessia Tondo, come ben sanno gli appassionati del folk revival e oltre italiano, in quella fortunata declinazione contemporanea che è il suono pugliese d'oggi, è nota soprattutto per essere la voce del Canzoniere Grecanico Salentino, una delle pietre angolari sulle quali si regge l'intera costruzione del discorso musicale oggi da quel lembo fondamentale della Penisola.
Ha iniziato giovanissima, con i Mena Menhir, poi ha avuto un gran bella vetrina con i Sud Sound System, a tredici anni è stata voce solista dell'Orchestra della Notte della Taranta, poi sono arrivate le collaborazioni con Ambrogio Sparagna, i Radiodervish, Ludovico Einaudi, e tanti altri. Una maturità vocale strappata quasi al vorticare degli eventi attorno a lei.
Adesso arriva questo disco breve come un soffio, il suo primo solistico che dura più o meno quanto durava una antica facciata di un ellepì di progressive rock, ventidue minuti. Ma sono ventidue minuti cruciali e decisivi, che realizzano il piccolo miracolo di raccordare le nebbie del Nord gaelico e la solarità del Sud: dunque di praticare l'esatto rovescio di quanto cercato da Faccini, per il medesimo esito.
Sono otto tracce, nate in solitudine introspettiva, a scavare dentro se stessa, in una sorta di faticoso ma realizzato personalissimo rito di “auto guarigione”, uno specchio sincero e nudo che rimanda otto immagini di donna alla ricerca della buona sorte e del conforto dal “malepensiero”: da qui il richiamo nel titolo alla Sita, in dialetto la melagrana da tempi ancestrali simbolo di fortuna, di buona opulenza, di incontro e condivisione.
Si diceva dei richiami al songwriting nordico: qui, grazie anche all'apporto del violino di Mauro Durante del Canzoniere Grecanico e del violoncello di Redi Hasa è impossibile non pensare ai fondali malinconici e poetici di brume che avvolgevano voce e canto di Nick Drake, come in "Me putia bastà", spunta l'ombra antica di John Martyn, di Bert Jansch in "Pacenza". Però il tutto accostato a filastrocche, a ripetizioni di formule quasi rituali come in Aria, dove la voce si sdoppia e si triplica a formare un fondale ritmico ostinato sul quale innestare una melodia vaporosa, un po’ come amano fare le conterranee Faraualla.
Un gran disco in una manciata di minuti, dunque, e una bella riflessione da parte della stessa Alessia Tondo che vale la pena di riportare per intero: «Se penso che la musica popolare ha sempre raccontato il quotidiano, fotografando attimi di vita, allora io ho raccontato il mio quotidiano, anzi tanti miei quotidiani. Se invece penso che la musica popolare per essere tale debba legarsi al concetto di “musica del popolo”, allora dovremo aspettare che qualcuno possa riconoscersi nelle parole di Sita o riconoscere qualcosa di familiare. Se Sita avrà raccontato anche un quotidiano che non è il mio, allora è, sarà musica popolare».