Adrianne Lenker è la nuova musa dell’indie rock USA

Il nuovo Two Hands, secondo album in cinque mesi, consacra definitivamente i Big Thief

Big Thief - Two Hands
Disco
pop
Big Thief
Two Hands
4AD
2019

Cresciuta da bambina in una comunità di “rinati cristiani”, affrontando poi con i giovanissimi genitori e due fratellini un’esistenza nomade in camper, Adrianne Lenker – incoraggiata dal padre, musicista amatoriale – pubblicò il suo primo album a 13 anni. Dopo essersi emancipata dalle assillanti aspettative paterne e aver perfezionato il proprio talento al Berklee College of Music, ora che ne ha 27 si sta ritagliando un ruolo di spicco nel panorama del rock indipendente d’oltreoceano con i Big Thief, quartetto di cui è cantante, chitarrista e principale forza motrice.

Una band vecchia maniera, i Big Thief: «Ci basiamo sulle canzoni e sui dischi, non sui singoli da Spotify», ha dichiarato in una recente intervista alla webzine Stereogum. Nato dall’incontro a New York con il chitarrista Buck Meek, diplomato, come lei e gli altri componenti – il batterista James Krivchenia e il bassista di origine israeliana Max Oleartchik – presso l’istituto di Boston, i Big Thief hanno pubblicato quattro lavori nel giro di un triennio, due quest’anno, distanti fra loro appena cinque mesi.

A maggio U.F.O.F. è stato accolto da consensi unanimi e a sorte analoga pare destinato il successore. Registrato in prossimità del deserto, nei dintorni di El Paso, con 40 gradi di temperatura, mentre per realizzare il precedente la formazione si era isolata nei boschi dell’estremo Nord Ovest, Two Hands se ne differenzia anche in termini di produzione: complesso e rifinito l’uno, essenziale e spontaneo l’altro, catturato praticamente in presa diretta, senza ulteriori sovraincisioni. Ne è eloquente dimostrazione “Replaced”: ballata che non teme l’imperfezione pur di restituire un senso d’immediatezza. Qui Lenker canta: “Perché la luna offuscata preferirebbe nascondersi ed essere rimpiazzata dal mistero delle stelle, perché noi ci ritroviamo nella tua stanza per essere rimpiazzati dal mistero del cuore”. Nitido esempio di una poetica che indugia sulle relazioni umane con garbata schiettezza: “Sveglia quando lasci la stanza, i cuscini ancora caldi, odore come di graminacee”, recita il diafano folk arpeggiato di “Wolf”. Oppure: “Dimmi che mi trovi graziosa, dimmi che sono rara, parla al ragazzo che c’è in me”, esorta “Cut My Hair”, scarna elegia di chiusura.

Lo sguardo al mondo circostante non ignora la violenza (“Il sangue dell’uomo che ha ucciso mia madre a mani nude è in me, dentro di me, nelle mie vene”, in “Shoulders”) né tanto meno la povertà: “La lingua dimenticata è il linguaggio dell’amore”, afferma “Forgotten Eyes”, volgendosi con sobria compassione verso gli homeless.

La voce in apparenza fragile dell’autrice trova conforto nell’empatia dei suoni (si ascolti il brano che dà titolo all’intera raccolta), la cui energia potenziale viene liberata in “Not”, episodio ad altissima intensità emotiva, affine nel crescendo a certe progressioni elettriche di Neil Young insieme ai Crazy Horse.

Di sicuro i Big Thief non riscrivono la storia del rock, ma in quell’alveo occupano oggigiorno una posizione speciale e tutto lascia pensare che la loro ascesa non sia affatto terminata.

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