Julianna Barwick
Will
Dead Oceans
Marissa Nadler
Strangers
Sacred Bones
Voci femminili provenienti d’oltreoceano e fluttuanti nell’etere. In particolare quella di Julianna Barwick, che la impiega come fosse strumento anziché per esprimere concetti verbali, un po’ alla maniera degli islandesi Sigur Rós: non a caso, in occasione del disco precedente, Nepenthe, si recò sull’isola al momento di prepararlo. Will è frutto invece di registrazioni compiute strada facendo, in tournée, ma ciò non influisce più di tanto sulla fisionomia sonora dell’opera, che rispetto al passato esibisce quale elemento di novità il sintetizzatore: in primissimo piano all’epilogo, “See, Know”, e viceversa usato per creare l’evanescente fondale su cui si adagiano brani come “Nebula” e “Same”.
A tratti sembra di sconfinare nel “dopo scienza” di Brian Eno (“Big Hollow”), mentre in altri episodi – ad esempio “Beached” – pare affiori in controluce il profilo di Julee Cruise, chanteuse prediletta da David Lynch.
Arrivando da esperienze differenti, approda in zone limitrofe Marissa Nadler: la canzone che dà titolo al suo settimo album, essendone inoltre punto mediano, cade infatti in una zona d’ombra situata fra Mulholland Drive e i “Blue Jeans” di Lana Del Rey. Destinazione insolita per lei, affermatasi nel tempo in veste di folksinger dal portamento gotico, ancora nell’ultimo disco prima di questo, July.
Strangers mostra maggiori ambizioni formali e ne reindirizza lo stile verso certi modelli del pop onirico (genere Beach House), senza peraltro rendere banale la grafia compositiva, nitidissima e in ugual misura evocativa, tipo Julia Holter. Lo dimostrano “Katie I Know” e “Waking”, ambedue garbatamente sensuali, oppure “All the Colour of The Dark”, prezioso distillato di malinconia. Risultato: uno degli album più suggestivi ascoltati dall’inizio dell’anno.