Tutto sul nero

Il secondo album del duo londinese Raime esplora i luoghi oscuri del suono elettronico

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Raime
Tooth
Blackest Ever Black

Joe Andrews e Tom Halstead appartengono a un’area del suono elettronico contemporaneo che si ricollega all’esperienza “industriale” forgiata tra fine anni Settanta e inizio Ottanta in Gran Bretagna da pionieri quali Cabaret Voltaire e Throbbing Gristle. Approdo singolare per una generazione di trentenni – fra gli artisti maggiormente affini, i connazionali Bojan Krlic (The Haxan Cloak) e Andy Stott – cresciuta avendo intorno il ritmo della techno, accantonato in favore di un approccio più mentale che fisico alla musica delle macchine.

Il secondo album del duo londinese, distante quattro anni da Quarter Turns Over a Living Line, si muove in scenari impercettibilmente meno ombrosi rispetto ad allora, benché onori comunque il concept espresso dal nome “più nero del nero” del marchio discografico che lo designa. Otto brani nell’arco di una quarantina di minuti, con uno sviluppo dall’apparente intenzione tematica, nel modo in cui alcuni elementi si riverberano da un episodio all’altro.



Gli scarni arpeggi di chitarra (vera novità nella costruzione musicale, in confronto al lavoro precedente) che caratterizzano e sorreggono “Dead Heat” e “Cold Cain”, ad esempio, laddove quest’ultimo sfocia – quasi senza soluzione di continuità – nel conclusivo “Stammer”, reso inquietante da un campionamento di voce strozzata ma persino epico nel crescendo finale, che contrasta con l’intenzionale stasi minimalista fino a quel punto dominante, dal profondo dub nel quale s’incastona lo spleen urbano dell’iniziale “Coax” all’ambientazione esoterica e spettrale di “Glassed”. L’austera essenzialità dell’insieme comunica epidermicamente una sensazione di freddezza, eppure Tooth riesce a raggiungere per vie misteriose la sfera emotiva dell’ascoltatore.

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