Tommaso Cappellato, nello spazio con Sun Ra

If You Say You Are From This Planet, Why Do You Treat It Like You Do? è il nuovo disco del progetto Astral Travel di Tommaso Cappellato

Tommaso Cappellato
Tommaso Cappellato
Articolo
jazz

Mai come in questi ultimi anni, oltre a vellicare da sempre la curiosità dei collezionisti, la figura di Sun Ra sembra ispirare musicisti di ogni parte del globo. La originale concezione collettiva della sua produzione, le originali scelte strumentali, unite a una filosofia che, svestita degli aspetti più folcloristici, rivela a chi vi si accosta profondità inaspettate rende Sun Ra una continua fonte di stimoli.

Accade ora anche per il batterista Tommaso Cappellato, uno dei musicisti italiani che in questi anni maggiormente ha esplorato gli ampliamenti dei confini della pratica improvvisativa. Da sempre attivo su entrambe le sponde dell’Atlantico – negli States ha studiato a lungo – torna infatti ora al suo progetto Astral Travel e con un disco, pubblicato in questi giorni da Hyperjazz, che ai testi e alla filosofia di Sun Ra fa aperto riferimento. Abbiamo colto l’occasione per una chiacchierata.

If You Say You Are From This Planet, Why Do You Treat It Like You Do? Tommaso Cappellato

Comincerei la nostra conversazione da If You Say You Are From This Planet, Why Do You Treat It Like You Do?. Come nasce questo disco?

«Cinque anni fa, in una delle mie sortite newyorkesi, mi sono imbattuto in un libro di poesie di Sun Ra intitolato This Planet Is Doomed. Avevo da poco intrapreso un tanto atteso approfondimento sulla sua figura ed ero costantemente in cerca di qualche testo che valorizzasse l’aspetto filosofico e concettuale dell’artista rispetto alle famose biografie e tante documentazioni musicali». 

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«A una prima lettura sono stato colpito da quanto i suoi concetti, in apparenza molto astratti, fossero in sintonia con delle intuizioni personali e simili a certa letteratura che parallelamente stavo investigando. In quel periodo avevo messo in pausa il mio progetto Astral Travel per favorire il percorso solista e, sebbene non sia mai stato attratto dagli album tributo, ho pensato che questo potesse essere un buon modo per dare nuova vita alla band, musicando le sue poesie con delle improvvisazioni registrate e post-prodotte».

 

«Circa un anno dopo la scoperta del libro sono riuscito a organizzare due giorni di registrazione chiamando in causa alcuni tra i miei musicisti preferiti di sempre: Fabrizio Puglisi al piano, synth e rhodes, Piero Bittolo Bon ai fiati e all’elettronica, Marco Privato al contrabbasso e Dwight Trible e Camilla Battaglia come interpreti dei testi.
Dopo varie e faticose ricerche sulla giusta label, Raffaele Costantino (in arte DJ Khalab) con cui collaboro da qualche anno, ascoltando il risultato finale, mi ha proposto di far uscire il disco sulla sua nuova Hyperjazz Records e vista la direzione dell’etichetta ho pensato sarebbe stato un ottimo connubio». 

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Sun Ra con la sua poesia, così come il tema ambientale, è diventato in queste settimane drammaticamente attuale.

«Nessuno avrebbe potuto prevedere quanto drammaticamente appropriato e preciso sarebbe stato il titolo e il concetto rispetto agli eventi correnti, ma da tempo mi chiedo – e non penso di essere l’unico – quali possano essere gli interessi, al di là del denaro e del potere, di chi governa il pianeta a maltrattarlo in questo modo. Sun Ra suggerisce che ci siano dei conflitti tra forze spirituali e astrali in atto e che la fine di tutto sia un desiderio del mondo intero. Di questo e altro parlano i suoi poemi e riesco a identificarmi in questo pensiero senza troppi sforzi».

Come ha lavorato il produttore Rabih Beaini sui materiali che avete improvvisato?

«L’intervento di Rabih era già stato immaginato nel concetto iniziale, vista la sua ormai lunga esperienza nel manipolare delle registrazioni live, trasformandole in delle vere e proprie opere d’arte. Una volta effettuata la registrazione e dopo vari ascolti, ho mandato il materiale in tracce separate perché potesse avere la massima libertà creativa, sia a livello di missaggio che a livello di arrangiamento. Rabih ha per la maggior parte mantenuto la struttura dei pezzi cosi come erano stati suonati, a volte manipolando i suoni, a volte spostando qualche parte e sovrapponendola ad altre. La sua arte è stata quella di rendere il tutto molto teatrale e cinematico». 
 
Come hai conosciuto Dwight Trible? 

«Conoscevo Dwight dai dischi della band californiana Build An Ark di Carlos Niño e Miguel Atwood-Ferguson e l’ho incontrato di persona per la prima volta a Berlino nel 2013 durante un evento organizzato dall’associazione Jaw in cooperazione con Gilles Peterson e la sua Steve Reid Foundation per una raccolta fondi a favore di Arthur Blythe. Per l’occasione ero stato invitato a partecipare proprio con Astral Travel in apertura dell’Horace Tapscott Memorial Ensemble di cui Dwight era ospite.
Negli anni a seguire ho suonato con Dwight più volte a Los Angeles, in vari concerti capitanati dal pianista e Dj Mark de Clive-Lowe. Tra questi ricordo due serate meravigliose al Blue Whale in cui abbiamo celebrato la musica di Pharoah Sanders, e che probabilmente saranno documentate su un album di prossima uscita».

Tra l’altro la California è diventata un po’ la tua nuova casa…
«A Los Angeles ho trascorso gli ultimi due mesi ininterrottamente prima di rientrare in Italia a causa della quarantena. È stato un periodo molto intenso, pieno di nuovi incontri e moltissima progettualità. È senza dubbio il luogo in cui ci sono più scene con cui riesco a identificarmi e conto di tornarci non appena questo grosso respiro della terra sia terminato».
 
E la controparte femminile vocale con Camilla Battaglia come l’hai pensata?

«La voce femminile è sempre stata una firma del progetto Astral Travel. Il primo disco Cosm’ethic, edito per l’etichetta inglese Jazz Re:freshed (2013) vedeva la cantante Alessia Obino affiancata al flauto di Anna Maria Dalla Valle, due sonorità che si sposavano perfettamente. Camilla Battaglia ha una vocalità molto precisa e una direzione estremamente personale. La contrapposizione tra il suo timbro piuttosto acuto e un’esecuzione molto simmetrica e la liquidità e profondità vocale nelle esecuzioni di Dwight fa si che un ampio spettro sonoro venga coperto in tutte le gamme timbriche, lasciando al tempo stesso moltissimo spazio.
Ho chiesto a Camilla di uscire dai suoi canoni per far fronte a un’esigenza espressiva diversa dal suo solito operato e da grande professionista e artista quale è non ha avuto problemi a districarsi ed esprimersi in altri ambiti».
 
Ti muovi da sempre con grande naturalezza su coordinate che sono quelle dei linguaggi – tra jazz e elettronica – che negli ultimi anni sono sembrati più in grado di raggiungere una comunità di ascoltatori differente da quella dei soli appassionati di jazz. Mi piacerebbe che tu raccontassi ai nostri lettori le tue sensazioni da insider: in cosa – se è così – si stanno ridefinendo alcuni parametri e grammatiche?

«Dal mio punto di vista ciò che viene definito “jazz” è sempre stato un punto di partenza per una fusione tra varie influenze etniche e tradizioni. Con l’avanzamento sempre più impetuoso della tecnologia era inevitabile che si arrivasse a questa interazione. Secondo me l’importante è che con l’introduzione della tecnologia non si perda quell’aspetto di organicità e fluidità che rende la musica un’esperienza magica. È la direzione che mi sono prefisso nell’inclusione di questi nuovi parametri».

«Dal mio punto di vista ciò che viene definito “jazz” è sempre stato un punto di partenza per una fusione tra varie influenze etniche e tradizioni».

«A un certo punto del mio percorso avevo capito, avendo interessi in diversi ambiti espressivi, che era importante “decontestualizzarsi” piuttosto che identificarsi sempre di più in uno stile definito. Non è stato un processo completamente premeditato, è successo un po’ per caso grazie all’affiliazione con vari DJ in diverse scene, da Nickodemus a Rabih Beaini, da Donato Dozzi a Volcov, da Mark de Clive-Lowe a Khalab. Detto ciò è difficile prevedere che cosa ci si possa aspettare a livello di sviluppo stilistico. Le strade sono talmente tante e molti stanno perseguendo il modello ibrido. Si pensi a batteristi quali Shigeto, Kassa Overall, Deantoni Parks, Eli Kezsler, Greg Fox, ognuno con un proprio output molto personale».
 
Il tuo progetto Astral Travel si rifà da sempre a linguaggi e filosofie che hanno animato la musica nera degli anni Sessanta e Settanta. Quali i tuoi riferimenti, non necessariamente strumentali?

«Quando mi sono trasferito in America per intraprendere i miei studi nel 1996 ho avuto un’intuizione chiara. Mi ero detto che se volevo imparare questa forma di musica afro-americana dovevo andare quanto più possibile alla fonte e interagire con i protagonisti che avevano tracciato il sentiero».

«Alla New School University, dove ho completato il BFA in Jazz Performance nel 2001, noi studenti avevamo l’opportunità di poter scegliere qualsiasi musicista presente nella scena di New York che fosse disponibile all’insegnamento. Ho avuto l’immenso privilegio di studiare privatamente con artisti quali Michael Carvin, Billy Hart, Victor Lewis, Jimmy Cobb e ho avuto come professori in classi collettive personaggi come Reggie Workman, Buster Williams, Chico Hamilton, Junior Mance e tanti altri ancora. Più di ogni altra cosa loro cercavano di trasmettere un’intenzione più che una tecnica esecutiva. Spesso le lezioni erano una trasmissione di concetti e di punti di vista».

Interessante, raccontaci bene questa fase…

«Tra tutti cercavano di spiegarci, in musica, cosa vuol dire essere afro-americani in una società guidata da bianchi e che cosa rappresenta la musica che hanno sviluppato. Questo è un elemento importantissimo da comprendere perché da europei è facile passare per appropriatori piuttosto che contributori e creatori». 

«Da europei è facile passare per appropriatori piuttosto che contributori e creatori».

«C’è stata poi una persona con cui sono entrato in stretta amicizia, il pianista, compositore e arrangiatore Harry Whitaker. Con Harry abbiamo suonato molte volte e spesso si finiva a casa sua ad ascoltare musica e mangiare qualche pasto da lui cucinato (era anche un ottimo cuoco)».

Non è una figura conosciutissima dalle nostre parti…

«Negli anni Settanta faceva parte di alcuni dei gruppi di Spiritual Jazz e R&B più importanti del momento a fianco di Roy Ayers, Roberta Flack, Eugene McDaniels e Terumasa Hino e nel 1976 aveva registrato Black Renaissance, un’opera discografica diventata un punto di riferimento per molti DJ e produttori hip-hop. Gli ascolti effettuati con Harry assieme alle sue spiegazioni e contestualizzazioni mi hanno fatto capire quanto la musica in generale e l’intenzione con cui la si suona debbano essere medicina per l’anima e quanto, per fare ciò, si debbano investigare vari aspetti della propria vita, soprattutto quello introspettivo. Ora più che mai penso sia importante che questo venga trasmesso da chi è nella posizione di insegnare musica».

Astral Travel If You Say You Are From This Planet, Why Do You Treat It Like You Do? Tommaso Cappellato

 E dal punto di vista strumentale, qual è stata la tua evoluzione, i tuoi punti di riferimento, magari anche il tipo di approccio che poi hai abbandonato?

«Come ho detto prima il mio percorso ha molto a che fare con l’acquisizione del linguaggio afro-americano in quasi tutte le sue forme. Per me era importante procedere per gradi. C’è stato un periodo in cui non mi concedevo di uscire dai parametri dello swing e del be-bop, non perché non mi piacessero altri stili, ma perché ritenevo importante avere ben radicata in me la tradizione e le regole a essa legate prima di capire come poterle rompere o svilupparle».

«Una volta affacciatomi al mondo del lavoro, dei tour e dei progetti discografici è stata una conseguenza l’apertura a quanti più stili possibili e da là non mi sono più fermato nel cercare di acquisire le ultime tendenze che fossero a me più consone. Inoltre viaggiare in vari paesi e scambiare con tanti musicisti e artisti da mondi e tradizioni diverse è stata una delle scuole più importanti. Tra tutti un viaggio di quasi due mesi e mezzo in Senegal nel 2005 ha lasciato un profondo segno, e ultimamente la collaborazione con la scena araba sperimentale, grazie a figure quali Maurice Louca, Khyam Allami e Nada El Shazly, mi hanno fatto scoprire ulteriori nuove tradizioni e possibilità espressive».
 
Come è strutturato il tuo progetto in solo, Aforemention?

«Il solo ha avuto varie vite ed evoluzioni. Attualmente la strumentazione comprende una batteria acustica, un sintetizzatore semi analogico, un laptop e dei sensori attraverso i quali posso mappare la batteria con infiniti suoni e campioni. 
Il set è strutturato in maniera molto precisa, grazie all’uso del software Ableton Live, in cui ho creato una forma definita del repertorio ma con delle finestre creative per l’improvvisazione. È un set che copre un ampio spettro di idee musicali con elementi di sperimentazione, ritmi serrati e sonorità ambient».
 
Cosa stai ascoltando in queste settimane?

«Mi vengono in mente gli ultimi dischi di Makaya McCraven e Alabaster De Plume su International Anthem, il disco ambient di Green House, l’ultimo lavoro di Carlos Niño, del producer sperimentale Zeroh, del sassofonista Sam Gendel e del bassista e producer Sam Wilkes - tutte su Leaving Records. In più varie registrazioni di McCoy Tyner e Alice Coltrane».
 
I tuoi prossimi impegni?

«In questa situazione sarà interessante capire come ognuno di noi può continuare a svolgere il proprio lavoro con tutte le limitazioni del caso. Ho moltissime registrazioni accumulate negli ultimi tre anni che necessitano di post produzione e missaggio. Tre in particolare: quella effettuata nello studio di Xavier Veilhan alla Biennale di Venezia nel 2017 assieme alle artiste Low Leaf e Nadal El Shazly, un mese di residenza artistica al Pioneer Works a New York nel 2018 con vari ospiti tra cui Michael Blake, Shazam Ismaily e Jaimie Branch e una più recente in studio col mio nuovo trio Collettivo Immaginario. Il tempo penso non mancherà!». 
 

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