Respiri d’avanguardia

(Ri)scoprire Mats Gustafsson e Roscoe Mitchell, partendo da Padova

Articolo
jazz

Oddio, non ci credo: il termine “avanguardia”!
Perdipiù nel titolo dell’articolo.
Come mi sarà saltato in mente di usare questa parola, che ormai staziona stabilmente nel sempre più vasto recinto delle parole “orrende”, quelle che non si usano più, che sono state usate a sproposito, che sono brutte o abusate, un recinto dove siede fianco a fianco con “attimino”, “contaminazioni”, “piuttosto che” e “implementare”?

Avanguardia di cosa? Rispetto a una retroguardia di chi?

Ma non sono pratiche, quelle di Mats Gustafsson e Roscoe Mitchell (perché è di due loro concerti che si parla), che ormai sono ampiamente storicizzate e da una certa prospettiva anche vagamente “passatiste”? Non sarà mica una captatio benevolentiae nei confronti degli appassionati più nostalgici di improvvisazione e varie radicalità?

Massì, avete ragione, cosa mi sarà saltato mai in mente?

Dopo tutto forse aveva ragione Freak Antoni quando diceva, in "Largo all’avanguardia", che al pubblico (vi risparmio l’epiteto Skiantos…) puoi dare “la stessa storia, tanto lui non c'ha memoria”. O forse no, chissà.

Comunque sia mi è venuto così, cosa devo dirvi, dopo le due eccellenti serate che hanno aperto la stagione autunnale del Centro d’Arte di Padova giunto al suo settantesimo anno (ne avevamo parlato con i direttori artistici in questa chiacchierata).

Due concerti nella magnifica Sala dei Giganti del Liviano, “baciati” da uno stato di grazia dei musicisti e premiati da un afflusso di pubblico davvero stupefacente – specialmente per Mitchell in duo con Michele Rabbia – che conferma la bontà delle recenti strategie di audience development della rassegna patavina.

È una terra di nessuno e di tutti, quella abitata da Gustafsson e Mitchell: indiscussi giganti per chi frequenta queste lande creative; pressochè sconosciuti al pubblico per cui il “jazz” comincia e finisce con quello che passa in edicola; portatori di pratiche che sono virtuose e sperimentali al tempo stesso, comunque portatrici di un’alterità e di un’originalità che richiedono una partecipazione da parte di chi ascolta e che quindi risultano ancora oggi “difficili” per molte orecchie (una signora, molto garbata, seduta dietro di me al concerto di Mitchell e Rabbia, durante gli applausi ha sussurrato al marito “non è proprio quello che intendo per concerto…”).

Eppure è una terra ancora ricca di frutti e di lande che meritano di essere (ri)esplorate, come hanno dimostrato dapprima Gustafsson in uno dei suoi memorabili soli in cui spreme i propri polmoni al limite della resistenza fisica, poi Mitchell, che ha trovato nel percussionismo di Michele Rabbia una controparte sensibile al dialogo.

Perché alla base di tutto c’è il respiro, quello esausto e quello continuo della respirazione circolare, quello che soffia via molecole di suono (il primo lungo brano di Mitchell e Rabbia, quello forse in cui l’intesa si stava ancora scaldando, è un continuo ricercare schegge di suono anche nel silenzio dell’aria che sbuffa via) e quello che sostiene campate sempre più dense di note.

È musica che richiede all’ascoltatore di mettere in gioco ogni senso, di abbandonarsi al flusso, di sospendere l’idea di riconoscere logiche classiche. È fisica, è metafisica, è violenza a tratti, è poesia del dettaglio, è costruzione con materiali che sembrano sbriciolarsi appena cerchi di farli tuoi. Mitchell è un maestro ormai da oltre cinquant’anni, il suo collega svedese lo è da venticinque e i cinquant’anni li ha compiuti da poco (come testimonia l’imperdibile cofanetto Peace & Fire della Trost Records, che raccoglie registrazioni di tre serate al Porgy&Bess di Vienna dedicate a Gustafsson, i suoi gruppi e la sua musica, con band e musicisti come Fire!, Klangforum Wien, The Thing, Ken Vandermark, Agustí Fernández e molti altri… cercatelo!).

Guardano alla stessa tradizione da prospettive differenti. Guardano a tradizioni differenti (come è ovvio, anagraficamente e geograficamente) dalla stessa prospettiva.

E il pubblico di Padova (molti gli studenti, attratti da un biglietto molto conveniente, ma inchiodati alle sedie e rispettosi) che è storicamente abituato a farsi coinvolgere da queste traiettorie ha risposto con grande calore, ha condiviso il “gioco” delle parti e ha sentito sulla propria pelle che se sei “d’avanguardia” lo sarai sempre, anche quando il termine non ha più quel valore di un tempo.
Eccoli dunque, due concerti davvero esemplari, da cui uscire con le orecchie piene di domande bellissime, oltre che di squittii, barriti infuocati, iterazioni visionarie, apnee dei sensi.

E che memoria vuoi che abbiano (tornando a Freak Antoni) ragazzi che oggi hanno vent’anni e che se i loro genitori gli raccontano di quando Mitchell o Braxton facevano migliaia di spettatori al palazzetto dello sport – accadeva davvero, a Padova – magari alzano gli occhi al cielo.
Meglio vederli curiosi, magari distratti dallo scattare una foto con il cellulare quando Michele Rabbia “frusta” la batteria con un fascio di fili colorati (ah… no, quello che fotografava ero io!), magari capaci di collegare queste esperienze a un concerto noise visto recentemente che non a Albert Ayler. Comunque vivi e vogliosi di respirare. Anche con il respiro dell’avanguardia, perché no?

Due dischi per conoscere Gustafsson e Mitchell se non li conoscete:

Neneh Cherry & The Thing – The Cherry Thing (Smalltown Supersound, 2012)



Roscoe Mitchell – Nine To Get Ready (ECM, 2009)




Due “classici” di Gustafsson e Mitchell:

Fire! Orchestra – Exit! (Rune Grammofon, 2013)



Art Ensemble of Chicago – Urban Bushmen (ECM, 1980)



Due gemme di Gustafsson e Mitchell da riscoprire:

Mats Gustafsson & David Grubbs – Off Road (Drag City, 2003)

Roscoe Mitchell – L-R-G / The Maze / S II Examples (Nessa, 1978)

(In apertura: Roscoe Mitchell a Padova (foto Maurizio Zorzi)

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