MySpace ha ammesso di aver perso «ogni foto, video e file audio» caricato sulla piattaforma prima di tre anni fa, come conseguenza di una «migrazione del server» andata male. «We apologize for the inconvenience» è il messaggio che compare ora sulla home del servizio.
La notizia è stata accolta da alcuni con (immotivata) ironia: «ma esisteva ancora MySpace?». Certo, esisteva: era stato rilanciato nel 2016 dopo il suo acquisto da parte di Time Inc., con alterne vicende. È vero, per buona parte degli Dieci era stato, sostanzialmente, un deserto informatico abitato da pochi sabbipodi abitudinari o nostalgici. Ma una biblioteca vuota, o chiusa, rimane sempre una biblioteca. MySpace – semplicemente – non esiste più: puff (o forse clic, è un suono più appropriato). Sparito nel cestino.
«Una biblioteca vuota, o chiusa, rimane sempre una biblioteca. MySpace – semplicemente – non esiste più».
L’entità del danno si comprende meglio se si guarda alle cifre: stiamo parlando – secondo le stime – di oltre 50 milioni di canzoni. Come ha notato il Guardian, fra queste ci sono anche i brani di artisti come Lily Allen, Arctic Monkeys e Yeasayer – fra i più famosi esponenti di quella «MySpace Generation» emersa alla metà degli anni Zero. Dietro questi, nella coda lunga, si consegnano all’oblio i dischi, le demo, le jam session, le foto di circa 14 milioni di musicisti più o meno professionisti, compresi (per quanto mi renda conto che non è decisivo) quelli che avevo caricato io sulla pagina del mio primo gruppo nel lontano 2004.
![Myspace](/sites/default/files/inline-images/myspace.jpg)
Si tratta di un olocausto di contenuti con pochi precedenti nella storia di internet, per la portata quantitativa ma – soprattutto – per l’immaginario. MySpace – sebbene diventato obsoleto nel giro di qualche anno, come molti nuovi media e nuovi spazi, è stato per un certo periodo uno dei canali principali attraverso cui la gente ascoltava e diffondeva musica (e, più in generale, contenuti). Come oggi sembra difficile per un musicista immaginare la propria vita personale e professionale senza i social network, allora MySpace era il posto dove stare, dove era necessario stare e si voleva stare.
«La novità della rivoluzione di internet, con cui non abbiamo ancora fatto i conti fino in fondo, è che ora la sparizione del medium è anche la sparizione del contenuto».
Altri modi di ascoltare la musica nella storia del secolo scorso sono stati consegnati alla memoria dopo fasi più o meno lunghe: la musicassetta, lo stereo 8, il minidisc, il vinile (ma sappiamo come è andata a finire…), il DAT, ora – a breve – il cd. La novità della rivoluzione di internet, con cui non abbiamo ancora fatto i conti fino in fondo, è che ora la sparizione del medium è anche la sparizione del contenuto. La morte del DAT ci ha lasciato con una mole di relitti da gestire, preservare, archiviare, ma che – a dispetto della difficoltà nel reperire un lettore adatto – continuano e continueranno a suonare (si potrebbe qui aprire una parentesi sul decadimento nel tempo dei supporti digitali, ma rischierebbe di mandarci fuori). Persino con l’mp3 nell’era del download la sparizione di un software – per esempio Winamp (che pure sta tornando) – non rendeva inservibili i contenuti. La morte di MySpace, nell’era dei Big Data e dello streaming, ci lascia solo con il vuoto.
MySpace ha aperto la strada ai canali attraverso cui oggi ascoltiamo musica con più frequenza: Spotify, Apple Music, YouTube, Instagram, Facebook… Tutti servizi che ci mettono a disposizione contenuti infiniti, che tuttavia non possediamo. Se si cancella l’abbonamento a Apple Music, i brani scaricati spariscono dal nostro hard disc. Se uscite da Facebook, potete sì scaricare i vostri dati, ma tutti gli altri non vedranno più i vostri video. Se Spotify si cancella come MySpace, la musica che ospita diventa letteralmente inascoltabile, per l’eternità.
Il salto concettuale nel nostro rapporto con la musica non è da poco, ed è più profondo di quanto non siamo disposti ad ammettere con noi stessi: tra comprare un disco e abbonarsi a Apple Music passa la stessa differenza, se vogliamo banalizzare, che passa tra acquistare una bottiglia al negozio e pagare la bolletta dell’acqua. Nel primo caso, ci troviamo a dover gestire il problema della conservazione («Imballa bene che si rompe»), dello stoccaggio («hai comprato altre bottiglie? E dove le metteremo?») ed eventualmente dello smaltimento («porta giù il vetro, non ne posso più di vederlo in casa»). Nel secondo, possiamo bere quanto vogliamo fino a quando rimaniamo collegati alla rete idrica. O fino a quando la rete idrica funziona.
Il discorso non riguarda solo la musica, naturalmente: lo stesso vale per le foto sui social network, o persino per i contenuti che teniamo su Google Drive, iCloud e Dropbox. Che cosa succederebbe alla tua vita se non potessi più accedere a tutti questi servizi, senza preavviso?
Per questo il caso MySpace è così importante e inquietante: perché mostra la caducità dei contenuti che danno un senso alla nostra vita ogni giorno, e la nostra completa impotenza di fronte alla loro esistenza, o non esistenza. Il mondo – il nostro mondo – potrebbe finire senza uno scoppio, ma con un clic.
«Il mondo – il nostro mondo – potrebbe finire senza uno scoppio, ma con un clic».