Mauro Palmas, la mandola sarda
Un libro e un disco in duo con Giacomo Vardeu, oltre i confini delle corde doppie
17 settembre 2025 • 5 minuti di lettura
Un libro, un disco nuovo (anzi, due, vedremo perché) con tutti i tratti di dirompenza creativa che Mauro Palmas si porta dietro per i suoi cinque decenni in musica. Quella che parte dai repertori tradizionali e popolari della sua Sardegna, allarga lo sguardo e la pratica oltre l'orizzonte dei mari che lambiscono l'isola a forma d'impronta, cerca e trova le “connessioni” di cui parla Jean-Loup Amselle con tutte le altre musiche.
Note che colgono l’essenza, mai parte delle subculture rancorose essenzialiste: nel senso che il monolitismo identitario applicato alla musica è quanto du più distante esista per Mauro Palmas. Specialista di mandole e di corde, dopo aver praticato anche le launeddas.
Il libro è Tra le mie corde. Maria Gabriella Ledda racconta Mauro Palmas, edito da Isolapalma edizioni, con accluso cd, in cui Palmas, a liuto cantabile, mandola e mandoloncello col suo trio stabile (Alessandro Foresti al pianoforte e Marco Argiolas al sax e ai clarinetti) rivisita brani storici dal suo catalogo.
Lo fa con un’impronta cameristica che marca uno stacco profondo dall’altro disco nuovo, Sighida, favoloso duetto tra liuto cantabile e l'organetto affollettato del giovane Giacomo Vardeu, diciannove anni. Il tutto arricchito dalla presenza di Cuncordu e Tenore di Orosei. Segnaliamo anche che il libro offre in coda una preziosa discografia integrale di Mauro Palmas, curata dal giornalista e saggista Salvatore Esposito, che parte dal 1978 di Suonofficina.
Proprio da Sighida però cominciamo la chiacchierata con Palmas: «Penso che Sighida, il disco nato dall’incontro musicale tra me, e il giovane Giacomo Vardeu, ovvero tra il liuto cantabile e l’organetto, trovi uno dei suoi momenti più significativi nella partecipazione dei Cuncordu e Tenore de Orosei. Non tanto (o non solo) per una questione geografica, Orosei è anche il paese d’origine di Giacomo, quanto piuttosto per le caratteristiche uniche di questo coro. Il Cuncordu e Tenore de Orosei è infatti un ensemble aperto al dialogo e alla sperimentazione. A differenza di molti altri gruppi legati alla tradizione del canto a tenore, loro hanno sviluppato una grande capacità di intonarsi con strumenti musicali, qualità non così comune in questo ambito».
«Questo li rende interlocutori ideali in progetti che cercano un equilibrio tra rispetto della tradizione e apertura alla contemporaneità. Credo che alcune delle esperienze che hanno vissuto, come la collaborazione con il violoncellista olandese Ernst Reijseger, li abbiano aiutati ad aprirsi a nuovi linguaggi musicali, arricchendo la loro visione e rendendo più naturale anche il nostro incontro. La loro presenza in Sighida ha portato una profondità vocale e una forza espressiva che ha contribuito in modo determinante alla riuscita del progetto».
Riflettendo sulla tua carriera, come è avvenuto il passaggio da launeddas e chitarre alle mandole? Un ricordo riaffiorato per i Quartetti storici a plettri?
«Il mio percorso musicale, dal punto di vista strumentale, è cominciato con la chitarra, per poi passare al basso elettrico. In seguito, ho scoperto la passione per le launeddas, in un periodo in cui questo strumento era ancora poco frequentato, se non da una ristretta cerchia di grandi suonatori e cultori della tradizione. Non era certo di moda, anzi: c’era una sorta di disinteresse generale, ed è forse anche per questo che mi ha affascinato così tanto. Successivamente mi sono avvicinato al mondo degli strumenti a pizzico e a plettro. Ricordo con grande intensità l’esperienza di andare ad ascoltare i quartetti a plettro che si esibivano improvvisando nei bar di quartiere: un ambiente vivo, genuino, in cui la musica popolare veniva ancora suonata per puro piacere e con grande abilità».
«In quel contesto ho conosciuto anche musicisti straordinari, come Albino Puddu, idealista e raffinato, membro del gruppo Is Cantores. Aveva una vera devozione per gli strumenti acustici, e il suo talento era stato riconosciuto anche da Fabrizio De André, che lo aveva omaggiato eseguendo una versione dell’Ave Maria ispirata proprio a una sua interpretazione. Ad Albino devo anche un ricordo molto personale: fu lui a regalarmi il mio primo volo in aereo, per andare a Roma a registrare il suo disco negli studi della leggendaria RCA. Un’altra figura fondamentale è stato mio zio Mario, che mi ha trasmesso una tecnica particolare per accompagnare la danza: un sapere antico, tramandato oralmente, che ha lasciato un’impronta profonda nel mio modo di intendere la musica. Da lì in poi, il mio percorso è proseguito quasi naturalmente, seguendo una direzione che, col senno di poi, sembra quasi obbligata».
Più volte nel libro parli dell’applicazione della suddivisione ritmica dei balli sardi al modo di suonare le doppie corde e nello specifico ai movimenti diversi che devono eseguire le mani. Puoi spiegarcelo, in qualche modo?
«La tecnica della suddivisione ritmica nella mandola affonda le sue radici nella danza. È proprio il ritmo del corpo, del passo, a determinare la modalità di esecuzione. In Sardegna, ad esempio, gli organettisti sono spesso ammirati per il loro particolare movimento del mantice, che a prima vista potrebbe sembrare il frutto di studi approfonditi o tecniche complesse. In realtà, almeno secondo la mia esperienza, quel gesto nasce da un istinto maturato attraverso la conoscenza profonda della suddivisione ritmica, che non risiede tanto nelle mani quanto nella testa».
È il pensiero ritmico, interiore, che guida il movimento: una consapevolezza mentale e corporea del tempo e della sua articolazione, che si traduce poi in gesti naturali, precisi, inevitabili.Mauro Palmas
«È il pensiero ritmico, interiore, che guida il movimento: una consapevolezza mentale e corporea del tempo e della sua articolazione, che si traduce poi in gesti naturali, precisi, inevitabili. E per quanto riguarda la mandola, il principio è lo stesso: non sono le mani a comandare il ritmo, ma è la mente, allenata dalla danza e dalla sua metrica, a guidarle. Le mani si muovono di conseguenza, e non potrebbero fare altrimenti, perché la struttura ritmica imposta dalla danza non lo permetterebbe. Da questa connessione profonda tra pensiero, corpo e ritmo nasce un risultato affascinante: un modo di suonare che è insieme tecnico, istintivo e profondamente legato alla tradizione».