Måneskin: non si esce vivi dagli anni settanta

Perché rallegrarsi che nel 2021 – l'anno dei Måneskin – la cosa musicalmente più avveniristica sia quello che si sentiva 50 anni fa? 

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A me non interessa il perché del successo dei Måneskin. Lo prendo per scontato, è un dato di fatto che non mi lascia né caldo né freddo. Mi interessa invece quello che questo successo significa in prospettiva. Che tipo di impatto potrà avere sulla musica e sulla cultura italiana: e ho i miei buoni motivi per essere un tantino perplesso.

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D’altronde sui motivi del successo dei Måneskin è già stato detto (quasi) tutto. Di come siano esteticamente magnetici e affascinanti, della loro presunta abilità a tenere il palco, del flirt esplicito con il gender fluid. Della macchina da guerra che deve aver allestito la Sony per promuovere il gruppo, anche se non è certo sufficiente per decretare un trionfo di queste dimensioni. Paradossalmente, l’aspetto più trascurato nel parlare del gruppo pare proprio essere la musica, che finisce con l’essere una componente secondaria nella loro cifra stilistica.

Di questo non ci si deve scandalizzare: il look e il modo di atteggiarsi sono da sempre un punto fondamentale nel costruire un personaggio, e certo non da ieri. Però ai tempi in cui David Bowie e Marc Bolan diventavano icone pop, se ci si prendeva la briga di valutare il contenuto musicale di quello che facevano, c’erano pochi dubbi sul fatto che fossero canzoni coi fiocchi, e che dietro i lustrini e i costumi spettacolari ci fosse una bella sostanza.

Ecco, per i Måneskin questo aspetto sembra non avere grande importanza, ed è un comportamento che vale tanto per i fan che per i detrattori. Questi ultimi (grosso modo: modello boomer con cultura musicale relativamente vasta) hanno tendenzialmente un atteggiamento di supponenza secondo il quale non vale la pena di ascoltare con attenzione il disco dei Måneskin; tanto già si sa che è derivativo, senza sostanza, strasentito, privo di emozioni. Ok, può essere, ma una dimostrazione di questo parere? Che io sappia, nessuno è mai andato ad analizzare in dettaglio le canzoni dicendo che c’è un riff spudoratamente copiato da Mott The Hoople o lo stesso suono di chitarra degli Slade (lo farei io, se avessi una conoscenza più approfondita di glam e hard rock anni Settanta; ma non è esattamente il mio genere). Invece si rimane a un livello di superficialità che automaticamente non consente di maturare un parere circostanziato sulla musica, come se implicitamente non meritasse di essere presa sul serio.

Nel parlare dei Måneskin si rimane a un livello di superficialità che automaticamente non consente di maturare un parere circostanziato sulla musica, come se implicitamente non meritasse di essere presa sul serio.

La cosa buffa è che i fan dei Måneskin (grosso modo: modello millennial con formazione soprattutto da TV e internet e poca conoscenza storica della musica) rimangono esattamente allo stesso livello di superficialità. Per chi non ha grandi parametri di confronto, il rock dei Måneskin è qualcosa di nuovo, qualcosa che per un giovane suona fresco ed eccitante.

Chissà quanti dei sostenitori della band sanno che “Begging” (che comunque Damiano e soci rendono, parere personale, alla grandissima) è la cover di un originale vecchio di decenni… alla fine, che importa? E allo stesso modo non importa minimamente sapere se lo stile musicale della band è veramente nuovo o una scopiazzatura di terza mano di cose già fatte: il passato, per questo pubblico, semplicemente non esiste.

L’aspetto che però mi preme di più è in realtà un altro, e anche in questo caso è un idem sentire trasversale che accomuna sia chi ama la band romana che chi la detesta. Ed è questa accoglienza trionfale per il Ritorno del Rock. Oddio, come già detto per i giovani non si tratta di un ritorno, ma di un fenomeno mai sentito; e per questo il loro entusiasmo è ancora comprensibile.

Quello che invece mi sfugge è per quale motivo ci sia un’adesione universale secondo cui “Rock è bello”, e quindi per il solo fatto che i Måneskin propongono una musica di chiara derivazione rock’n’roll, siano inevitabilmente da apprezzare – e questo soprattutto dalla prima generazione di critici musicali italiani, a partire dall’imbarazzante “Fuck Yeah” di Carlo Massarini.

Di che si tratta? Di una conferma della tesi secondo cui il rock non morirà mai? Di pura nostalgia per la musica dell’adolescenza per chi ha oggi 50 o 60 anni? Della glorificazione del genere che forse per primo ha stabilito dei parametri di valore nell’ambito della popular music? Di banale sudditanza?

È vero: sono almeno trent’anni, forse di più, che si dice che il rock “è morto”; ma nell’era dei Måneskin, possiamo ormai affermare che si tratta di una fake news.

È vero: sono almeno trent’anni, forse di più, che si dice che il rock “è morto”; ma nell’era dei Måneskin, possiamo ormai affermare che si tratta di una fake news. Ma che ci sia da essere contenti del fatto che in Italia il genere di riferimento nel 2021 è il rock’n’roll di cinquanta anni fa, questo mi lascia non poco perplesso (e lasciamo perdere qualsiasi orgoglio nazionalistico, di quello non voglio neanche parlarne). Capisco che dopo anni e anni in cui i giovani guardavano alla trap e all’hip hop di terza generazione come alla massima espressione musicale disponibile, il ritorno alla musica delle chitarre sia in qualche modo consolatorio. Ma rifugiarsi in un genere che affonda le sue radici negli anni Settanta non è neanche un revival, è una pura operazione di retroguardia.

Forse sarà anche questa una moda passeggera, ma per intanto tutti sono concordi nel vedere nel rock’n’roll il suono del momento: basta vedere com’è cambiato l’umore tra gli artisti delle finali di X-Factor, dove il sound chitarristico è diventato predominante e un gruppo di sconcertante ordinarietà come i Mutonia è presentato enfaticamente come un miracolo di potenza e di energia. Chissà se anche a Sanremo 2022 vedremo una sequenza di distorsioni e batterie selvagge, per la gioia di giovani e vecchi accomunati dall’eccitazione per un riff di chitarra elettrica.

Personalmente, non riesco proprio a condividere questo entusiasmo: sono cresciuto col rock e l’ho amato, ma vederlo cristallizzato come genere buono per tutti, con la forza di ribellione originaria edulcorata e adattata per piacere al grande pubblico, mi mette solo una gran tristezza. Tanto più che, per assurdo, questa operazione avviene proprio quando si cominciavano a intravedere evoluzioni interessanti, e di notevole valore artistico, nella musica confinante con la famigerata trap.

All’inizio di quest’anno sono usciti i dischi di Mace, di Venerus, di Madame, tutti dischi freschi nel suono, moderni e innovativi, insomma un’espressione di qualità e al passo coi tempi; ma non abbiamo fatto in tempo a dire che finalmente si sentiva qualcosa di inedito e interessante, che Sanremo prima e l’Eurofestival dopo hanno spazzato via tutta la hype; adesso, di questi nomi già quasi non se ne ricorda più nessuno.

Che senso ha rallegrarsi che nel 2021 la cosa musicalmente più avveniristica sia quello che si sentiva 50 anni fa?

Ecco invece sugli scudi il sound del glam rock, ad opera di ragazzi nati trent’anni dopo il periodo aureo del genere. Che senso ha rallegrarsi che nel 2021 la cosa musicalmente più avveniristica sia quello che si sentiva 50 anni fa? Dov’è finito il concetto di progresso, la voglia di spingersi oltre i limiti del già noto? Perché se i modelli di oggi sono i T-Rex e gli Status Quo, mi sa che siamo veramente in una situazione di status quo.

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