La vita tra parentesi quadre di Selfimperfectionist

Life in Square Brackets è il quinto lavoro di Giorgio Pilon con il moniker Selfimperfectionist: l'intervista

Selfimperfectionist
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Esce il 10 gennaio Life in Square Brackets, il quinto lavoro del musicista elettronico torinese Giorgio Pilon con il moniker Selfimperfectionist. Ci è sembrato giusto approfondire con lui i contenuti del disco o, meglio, della cassetta.

Un giorno di metà novembre la segretaria mi sventola sotto il naso una cartolina: «’Sta roba è per te», detto col tono di una che per motivi anagrafici non ha mai né scritto né ricevuto una cartolina. Immagini seppiate di piazza Castello a Torino e sul retro «Exactly how do we feel when we find we’re living our life in square brackets?», e poi la firma, Selfimperfectionist.

Selfimperfectionist

Soluzione low cost ma più efficace di tanti comunicati stampa che intasano la mia casella di posta elettronica. Ci siamo quasi – penso –, Giorgio Pilon ha terminato il nuovo lavoro ed è pronto a pubblicarlo.

Selfimperfectionist

Perché questo titolo?

«La vita tra parentesi quadre è la mia. A differenza dei lavori precedenti in questo parlo di me e le parentesi quadre sottolineano una sospensione rispetto a ciò che mi circonda. Gli ultimi due sono stati per me anni di grandi cambiamenti che mi hanno spinto a mettere in discussione alcuni punti che davo per assodati; è stato faticoso ma è stata una fatica piacevole, e mi è sembrato giusto prendermi del tempo per descrivere queste sensazioni. Se ci pensi, quando scriviamo non usiamo quasi mai le parentesi quadre, fanno parte soprattutto del linguaggio matematico e di quello informatico. Quando le usiamo nel linguaggio scritto vogliamo evidenziare una sospensione o un approfondimento in nota».

Selfimperfectionist, a ben vedere un termine che è difficile da rendere in italiano.

«Era il titolo di una b-side di un 45 giri degli Adorable pubblicato nel 1992, “I’ll Be Your Saint”, gruppo che incideva per l’etichetta Creation, perfetto esempio di beautiful loser. In molti pensano che io abbia una formazione esclusivamente elettronica, invece sono sempre stato un appassionato di certa musica inglese pubblicata a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta, quella che, con facile definizione, conosciamo come Britpop».

Che importanza ha per te un certo passato?

«Un’importanza notevole anche se, volenti o nolenti, non possiamo non definirci moderni. Se ti riferisci in modo specifico alla cartolina, sappi che l’ho spedita a non più di trenta persone, quelle che più mi hanno seguito in questi anni. Possiamo parlare di vezzo, di gesto rétro, ma soprattutto di affetto verso i destinatari, con un tocco de Il favoloso mondo di Amélie, un film di grande successo, un film che non fatico a definire furbetto, al cui interno compare una Parigi per l’appunto da cartolina, e di cui però ho apprezzato i rimandi al periodo della nouvelle vague».  

Anche uscire su cassetta è un vezzo, vero?

«Beh, certo, anche se sarà possibile scaricare la versione mp3 dalle principali piattaforme digitali. Come ascoltatore io nasco con le cassette, le ho sempre trovate fantastiche nella loro praticità e nella loro trasportabilità; certo, mi rendo conto che oggi sono rimasti in pochi a possedere un registratore o un Walkman, e infatti ho reso possibile il download, però mi piace credere che molti apprezzeranno la cassetta in quanto oggetto per la sua estetica essenziale».

«Mi piace credere che molti apprezzeranno la cassetta in quanto oggetto per la sua estetica essenziale».

La mia impressione è che questo lavoro sia più compiuto rispetto al precedente, nel senso che lo fai partire e lui va avanti per 58 minuti senza scossoni, ferme restando alcune vette che, per quanto mi riguarda, sono “Lichen”, “First Check” e la conclusiva “So long George”, presente solo nella versione su cassetta.

«“So long, George” sono io di spalle che mi allontano dopo aver terminato una confessione sonora che mi ha occupato per due anni. Quando ho terminato la costruzione degli scheletri delle canzoni, li ho portati a Marco Milanesio per la produzione. Ho la tendenza a non riascoltare troppo il prodotto finito e quando prima mi hai detto che all’interno del brano d’apertura “Purple Wheeze” hai individuato una sequenza che ti ha ricordato “Trans Europe Express” dei Kraftwerk, ti rispondo candidamente che non lo so ma, se è davvero così, per me è un complimento e ti ringrazio. Comunque inizierò una sessione di ascolti ripetuti perché devo preparare il live set».

Premesso che le definizioni lasciano il tempo che trovano, come presenteresti la tua musica a chi non l’ha mai ascoltata?

«Le etichette sono sempre un po’ fastidiose, diciamo che a mio avviso i titoli riflettono in maniera soddisfacente le atmosfere che ho cercato di creare nei diversi brani. La mia musica è stata spesso definita dark ambient ma, concedimi un minimo di arroganza, in questo lavoro non abbraccio i manierismi del genere. Non è assolutamente un disco cupo, lo vedo più come la colonna sonora di un cortometraggio sugli ultimi due anni della mia vita, che, come ho già avuto modo di dire, sono stati importanti e belli».

Mi incuriosisce il titolo “Berlin (The Wait)”.

«Devi sapere che più volte in passato avrei dovuto andare a Berlino, magari essendoci anche vicino, ma per i motivi più disparati alla fine non ci sono mai stato. Ecco il perché di quell’"attesa", attesa che la prossima primavera dovrei – e il condizionale è d’obbligo, visti i precedenti – finalmente soddisfare».

Sarà la volta buona? Gli auguro di sì. Nel frattempo mi immergo tra le parentesi quadre, un po’ di sospensione può fare solo bene. So long, George.

Selfimperfectionist

 

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