Il jazz di La La Land fa schifo

Il musical di Damien Chazelle non funziona e rivela il desolante gusto musicale degli autori

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Tutti ne parlano, molti lo lodano, altri lo criticano, qualcuno fa lo snob per distinguersi, altri ponderano le loro valutazioni. È il gioco messo in moto abilmente dalla promozione di La La Land, opera terza del giovane registra statunitense Damien Chazelle (da noi è uscito solo il precedente Whiplash). E siccome si tratta di un musical, non possiamo esimerci dal riferirne brevemente qui sul "giornale della musica".

La La Land è un remake dichiarato di Les parapluies de Cherbourg, il capolavoro di Jacques Demy (1964): un melodramma tutto cantato, che commosse mezzo mondo con la sua storia melodica di un amore spezzato dalla guerra d’Algeria. Tutto in La La Land richiama con affetto il film di Demy: i giovani protagonisti, i colori dei costumi, la fotografia (si pensi al fondale verde nella scena della cena), le tonalità della scenografia, il senso diffuso di finzione cinematografica, la felice vicenda amorosa che sfocia nel melodramma.

Chazelle si ricorda anche dell’altro grande musical di Demy, Les demoiselles de Rochefort (1967), richiamato nella sequenza in casa con le amiche di Mia. E poi ci sono iniezioni continue di Un americano a Parigi, un tocco di Singin’ in the Rain, ovviamente West Side Story nella sequenza iniziale e, nella scena in volo all’osservatorio, perfino echi di Tutti dicono I Love You di Woody Allen. Insomma, un film citazionista ed enciclopedico, che però si rivolge ad un pubblico che non ha mai visto un musical in sala e quindi fa fatica non solo a cogliere la selva eccessiva di riferimenti, ma prende per fresco e nuovo quello che non lo è.

I punti di forza del film – oltre all’impeccabile e piacevole confezione – sono i due protagonisti, freschi e credibili, in particolare Ryan Gosling, che canta e suona con perizia. E funziona l’idea di Chazelle di affidare loro coreografie per non professionisti, con tutte le incertezze e le esitazioni che ce li rendono ancora più simpatici. In questo senso la sequenza di ballo sul belvedere di Los Angeles al tramonto vale tutto il film.

Ma ci sono due grossi problemi in La La Land. Sul piano narrativo la svolta melodrammatica della seconda parte, la più fiacca, non è minimamente credibile: non c’è niente che renda drammatico l’allontanamento dei due, certo nulla di paragonabile alla guerra di Demy. Uno esce dal cinema e si chiede perché diavolo i due si siano lasciati (che Chazelle abbia problemi con la struttura del film lo si capisce anche da come “brucia” all’inizio la sequenza più spettacolare, quasi una specie di trailer esplosivo che poi infiacchisce il resto).

Mentre il film scorre, ci si accorge con sgomento che la musica va dal “mediocre” al “molto brutta”.

Il difetto più grosso, quello che a noi interessa qui, è purtroppo la musica di Justin Hurwitz, collaboratore abituale del regista. Attenzione: qui la musica è qualcosa di più di un ingrediente indispensabile del musical: infatti La La Land è un film in cui si parla di musica. E purtroppo mentre il film scorre ci si accorge con sgomento che la musica va dal “mediocre” al “molto brutta”.

Sebastian straparla continuamente di jazz, del suo potere rivoluzionario, e nell’esaltazione ci indica la musica che ascoltiamo su un palco alle sue spalle. A parte il problema “razziale” che qualcuno ha voluto notare (il bianco che vuole rivoluzionare il jazz mentre i neri fanno il loro lavoro sullo sfondo), qui il problema è un altro: il jazz che ci fa ascoltare Sebastian fa schifo. È musica sgraziata, vacua e goffa, che lascia sbigottiti per la sua pochezza. Non è solo brutta: è proprio scritta male. Prendete il tema “latin” di “Another Day of Sun”, che fa da leitmotiv per tutto il film: il rigido arpeggio sulle triadi è un buon punto di partenza per scriverci un pezzo sopra, ma Hurwitz invece ce lo propina come un prodotto finito, accattivante quanto una bozza promettente.

Nei casi migliori (“City of Stars”) Hurwitz scrive canzoni anonime. E poi nella sequenza con John Legend (qui trasformato in chitarrista), “Start a Fire” ha richiesto ben quattro autori (compresi Hurwitz e Legend) per partorire un pezzo funky commerciale così fesso, né kitsch né bizzarro, che, mentre lo ascolti, ti chiedi come faccia il pubblico nel film a farsi trascinare. In sostanza Chazelle e Hurwitz hanno realizzato un musical, ma il loro gusto musicale è desolante.

Torniamo alla base. Prendiamo Amami stanotte di Rouben Mamoulian (1932), uno dei capolavori fondativi del musical, nonché uno dei primi film sperimentali del sonoro. All’inizio Maurice Chevalier attacca “Isn’t It Romantic?” per raccontare il suo amore coniugale; ma quasi subito un personaggio commenta «what a catchy tune!», che motivetto accattivante, e questa osservazione metamusicale innesca una iperbolica deviazione narrativa della sequenza, uno dei momenti più geniali nella storia del cinema sonoro. Ecco, Richard Rodgers, l’autore della canzone, era sicuro che la canzone fosse bellissima, che il commento potesse essere proclamato nel testo e potesse così far esplodere la struttura del film; così come Michel Legrand era consapevole della sua musica per le Les parapluies de Cherbourg, al punto che Demy potè farne il cuore stesso del film. Per fare un musical che funzioni il compositore deve avere una sfacciata consapevolezza della propria bravura, e il regista deve avere la sensibilità per comprenderne il valore strutturale. Altrimenti il film diventa insipido e svanisce presto, come il sogno che La La Land vorrebbe raccontare.

In sostanza Chazelle e Hurwitz hanno realizzato un musical, ma il loro gusto musicale è desolante.

P.S. Una postilla. Tutta la critica ufficiale – italiana e non – che si è espressa in modo molto positivo non ha speso una sola riga per la qualità della musica. Le uniche osservazioni in merito, di regola negative, sono venute da riviste e critici musicali. È preoccupante che la critica di un’arte totale come il cinema si riveli così sorda e priva di vero gusto musicale. Ma questo aprirebbe un altro discorso.

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