Headless Heroes #2: il manifesto mancato di Oliver Lake

Alla scoperta dei tesori nascosti del jazz anni Settanta

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Ci sono dischi ai quali riesce tutto e subito, ce ne sono altri invece che il giro giusto lo devono prendere un po' più largo. Quanto largo? Cinque anni nel caso di Ntu: Point from Which Creation Begins, registrato nel 1971 e pubblicato solo nel 1976, dopo un periodo di attesa forzato e non programmato: lo strano caso di un debutto retrocesso al quarto posto nella discografia ufficiale del sassofonista Oliver Lake, che il suo primo passaggio in studio l'aveva pensato e organizzato come via di fuga da St. Louis verso l'Europa, la terra promessa del free.

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Prima però un passo indietro. C'è un'altra storia dentro la storia del disco che stiamo raccontando, e che ci riporta all'estate del 1968. Tra la fine di luglio e i primi giorni di agosto, quando sul palco del Webster College della già citata St. Louis viene presentata una singolare versione dello spettacolo The Blacks del drammaturgo francese Jean Genet. Un allestimento multidisciplinare curato da un collettivo di artisti attorno al quale orbitano musicisti, scrittori, poeti, coreografi, scultori, pittori, danzatori: si fanno chiamare Black Artists' Group (BAG) e in realtà è da qualche mese ormai che coltivano l'idea di costituirsi in una vera e propria associazione. Il modello di riferimento è l'AACM di Chicago (Association for Advancement of Creative Musicians), che funziona dal 1965 sotto la guida di Muhal Richard Abrams e con la quale c'è un punto di contatto diretto: Lester Bowie. Il futuro trombettista dell'Art Ensemble è infatti cresciuto a St. Louis e conosce benissimo la scena locale, ma per seguire da vicino gli interessi della moglie, Fontella Bass, ha deciso di muoversi verso Nord e di mettere radici nella città del blues, molto più ricca dal punto di vista delle opportunità per una stella del soul in ascesa dopo il successo clamoroso di "Rescue Me" (singolo pubblicato dalla Chess nel 1965). I contatti con il vecchio giro sono però rimasti frequenti, scanditi da una serie di visite di cortesia e di trasferte in entrambe le direzioni che fanno da preludio al consolidarsi della galassia BAG.

E qui torniamo a Oliver Lake, che dai parenti stretti dell'AACM, e in particolare da Roscoe Mitchell e dal suo Art Ensemble Quartet, destinato a breve a evolversi nella forma definitiva di quintetto "of Chicago", prende in prestito anche l'idea di una band stabile che parli il jazz del presente, sintonizzata sulle frequenze delle avanguardie: con uno sforzo di fantasia minimo, l'Oliver Lake Art Quartet mette per la prima volta il naso fuori dalla sala prove nel 1967, con Floyd LeFlore alla tromba, Jerome "Scrooge" Harris alla batteria e Carl Arzinia Richardson al basso. È l'atto di nascita non ufficiale del reparto musica del BAG, a quel punto già porto sicuro per una serie di sperimentatori con il futuro dalla loro parte. I nomi di punta? I sassofonisti Hamiet Bluiett, J.D. Parran, Luther Thomas e Julius Hemphill (nato a Forth Worth, la stessa città texana di Ornette Coleman e Dewey Redman), il trombettista Baikida Carroll e il batterista Charles "Bobo" Shaw.

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BAG in Francia

Ci sono tutti in quell'estate del '68 che segna il varo del collettivo, ingaggiati proprio da Lake per l'allestimento di The Blacks e poi coinvolti nella gestione del BAG (del quale Hemphill, ad esempio, diventa il primo tesoriere). D'altronde sono gli anni in cui si moltiplicano le realtà che guardano all'autogestione come modello alternativo al sistema-mercato (bianco), spesso con l'obiettivo di radicarsi nelle comunità di riferimento a livello sociale e non solo di riuscire a costruire circuiti artistici alternativi o incarnare politicamente gli slanci libertari della rivoluzione black: dell'AACM di Chicago, che per parentela stretta e prossimità geografica esercita un'influenza decisiva, abbiamo già detto, ma sono evidenti anche le consonanze con la californiana UGMAA (Union of God' Musicians and Artists Ascension), fondata e diretta dal pianista Horace Tapscott, con la Strata Records della vicina Detroit (da non confondere con la Strata East di Charles Tolliver e Stanley Cowell), con la newyorchese Jazz Composers Guild di Bill Dixon e di rimando con l'Arkestra di Sun Ra. Medesime le modalità di funzionamento, identiche le aspirazioni.

 

Peccato che la spinta propulsiva del BAG, vuoi per le inevitabili difficoltà finanziarie, vuoi per la fisiologica ristrettezza degli orizzonti in una città relativamente piccola come St. Louis, duri poco più di quattro anni. E qui torniamo a Oliver Lake e al 1971, quando ormai al sassofonista è chiaro che le cose che contano stanno succedendo altrove. Nel maggio del 1969 Roscoe Mitchell, Joseph Jarman, Lester Bowie e Malachi Favors erano stati i primi della scuderia AACM a imbarcarsi per l'Europa, seguiti poco dopo da Anthony Braxton, Leroy Jenkins e Leo Smith. I loro racconti entusiasti al ritorno dal viaggio in Francia, proprio nell'estate del 1971, con Bowie, Mitchell e Don Moye che si fermano a St. Louis prima di rientrare a Chicago, sono la spinta definitiva alla diaspora. Lake decide che è il momento di vedere cosa c'è dall'altra parte dell'Atlantico. L'idea è quella di registrare un disco da presentare come biglietto da visita ai promoter europei e di imbarcarsi su una nave con due furgoni pieni di strumenti e una decina di colleghi. Idea ambiziosa, che però deve fare i conti con la realtà spicciola: il disco nessuno lo vuole pubblicare, e non tutti i convocati per la traversata sono entusiasti di saltare nel vuoto di un'impresa che sa di puro azzardo. E così, quando il 16 ottobre del 1972 il transatlantico SS France salpa da New York in direzione Le Havre, a bordo con Lake ci sono solo Baikida Carroll, Floyd LeFlore, Charles Shaw e Joseph Bowie, trombonista e fratello minore di Lester. A Parigi e dintorni ci resteranno chi fino all'inverno del 1974 (Lake), chi fino all'anno successivo (Carroll), raggiunti da Hemphill in un secondo tempo: ma al momento dell'inevitabile viaggio di ritorno, per tutti la meta sarà New York e non più St. Louis.

Fine della storia nella storia. Con il cerchio che si chiude cinque anni dopo grazie all'interesse della Arista e di Michael Cuscuna, che inserisce nella collana Freedom il manifesto mancato dell'estetica BAG. Il titolo scelto, Ntu: Point from Which Creation Begins, è già di per sé una dichiarazione d'intenti: Lake si rivolge alla Madre Africa, evocando gli antenati attraverso la parola-suffisso che nelle lingue di matrice bantu indica lo spirito vitale, l'energia cosmica che unisce ogni essere vivente agli altri esseri viventi e all'intero universo (ntu). Il creato come entità unica: cielo e terra; carne e spirito; passato, presente e futuro; in un afflato panteistico che le note di copertina estendono alla black music: “Dixieland, be-bop, soul, rhythm & blues, cool school, swing, avant-garde, jazz, free jazz, rock, jazz-rock. Aretha Franklyn and Sun Ra is the same folks, Coltrane e the Dixie humming birds same folks, Miles & Muddy Waters same. One music, the total sound, mass sound, hear all the players as one”.

Se poi non fosse chiaro il concetto, ci pensano i 13 minuti scarsi di “Africa” a mettere in musica le ragioni di Lake e compagni, tra piccole percussioni all'Art Ensemble, un ostinato di basso che sostiene i riff da Arkestra della band a dieci elementi (quelli che avrebbero dovuto viaggiare insieme verso Parigi) e tribalismi assortiti a soffiare nelle vele dei solisti. Meraviglioso. Il resto della scaletta scivola via tra brani più convenzionali (“Tse'lane”), improvvise impennate jazz-rock (la davisiana “Electric Freedom Colors”), divagazioni para-cameristiche (“Eriee”) ed esplosioni di rabbia free alla maniera di St. Louis (“Zip”). Lake quando il disco esce è ormai presenza fissa sui palchi newyorchesi, a un passo dalla nascita di quello che resterà il suo gruppo più celebre e celebrato: il World Saxophone Quartet. Ma qui inizia un'altra storia che merita un capitolo tutto suo.

 

Il disco

Titolo: Ntu: Point from Which Creation Begins

Artista: Oliver Lake

Formazione: Oliver Lake (sax soprano, contralto, flauto e percussioni); Baikida E.J. Carroll e Floyd LeFlore (tromba, percussioni); Joseph Bowie (trombone, percussioni); Richard Martin (chitarra); John Hicks (pianoforte); Clovis Bordeaux (piano elettrico); Don Officer (basso elettrico); Charles Bobo Shaw (batteria); Don Moye (conga).

Data di registrazione: 1971

Etichetta: Arista/Freedom

Rarità (da 1 a 5): 1

Facilmente reperibili, e a prezzi tutt'altro che proibitivi, sia la prima stampa della Freedom che la ristampa (anche in Cd) della Universal Sound del 2012 (con una copertina diversa: perché?). Per feticisti e viziosi, esistono varie edizioni giapponesi. Infine attenzione a Spotify, che ha deciso di tagliare i due minuti finali di “Africa”, compreso l'assolo (splendido) di Oliver Lake. Vatti a fidare della rete...

 

Un altro disco

In Paris, Aries 1973. L'unico uscita a nome Black Artists' Group. Documento preziosissimo del periodo francese della prima testa di ponte partita da St. Louis. Inavvicinabile la prima stampa auto-prodotta, ma per fortuna ne esistono varie edizioni successive a prezzi umani (l'ultima, del 2023, della belga Aguirre). Per i completisti: la francese Wewantsounds ha di recente pubblicato, sia in digitale su Bandcamp che in LP e CD, dei nastri inediti risalenti allo stesso periodo: For Peace and Liberty. Altra testimonianza storica fondamentale.

Un libro

BAG di Benjamin Locker (316 pagine, Missouri Historical Society Press). Sottotitolo: Point From Which Creation Begins. Un resoconto dettagliato della breve parabola artistica e umana del Black Artists' Group, con particolare attenzione al contesto urbano e sociale della St. Louis di fine anni Sessanta. Necessario, ma solo in inglese.

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