Fela Kuti l'uomo e il Dio

Fela. Il mio dio vivente è il documentario di Daniele Vicari che racconta il rapporto fra Fela Kuti e il videoartista romano Michele Avantario

Fela dio vivente
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Fela. Il mio dio vivente: s’intitola così il documentario che Daniele Vicari – regista con alle spalle una nutrita filmografia, all’interno della quale spicca Diaz – Don’t Clean up this Blood (2012), vincitore di ben quattro David di Donatello – ha dedicato a ricostruire il legame di amicizia tra Michele Avantario – videoartista romano, conoscitore della musica africana folgorato dall’afrobeat e dalla personalità larger than life di Fela Anikulapo Kuti – e il Black President.

Fela

Un documentario quindi in cui Fela è solo uno degli elementi su cui si è basato il lavoro di Vicari, essendo gli altri Avantario, la sua moglie amatissima Renata Di Leone, co-produttrice del film, e Lagos, coi suoi odori, il suo traffico infernale, il suo caos e il suo intollerabile caldo umido, tutte sensazioni che la pellicola riesce a farci provare tangibilmente.

Abbiamo visto il film in una sala piena, nella proiezione organizzata da Aiace Torino, TUM (Turin Underground Music) e Seeyousound, con la presenza del regista: «Non vi aspettate solo un film che ripercorra le tappe della carriera del celebre musicista nigeriano.

È chiaro dalle prime sequenze, che si tratta di un racconto in prima persona dal punto di vista dell'artista visuale Michele Avantario, a cui Claudio Santamaria presta la propria voce. E Fela, contro ogni aspettativa, non viene divinizzato sin dall’inizio, ma viene avvicinato man mano che il rapporto col narratore/videomaker diventa più stretto. I protagonisti sono in realtà due e le loro vicende si legano indissolubilmente, tratteggiando un inedito ritratto umano di Fela Kuti».

Vicari parla di due protagonisti, io di quattro, ma ci siamo capiti: questo non è un film sulla vita e l’opera di Fela, se cercate qualcosa di simile, eccovi accontentati.

Nato a Roma, Avantario amava la musica jazz e africana, in particolare i ritmi afrobeat elaborati dal batterista Tony Allen e dal cantante, sassofonista, capopopolo e guru Fela Kuti.

Formatosi nell’ambito del cinema underground a partire dalla metà degli anni Settanta, negli anni Ottanta Avantario volge il suo interesse alla videoarte. In quanto esperto di musica africana, nel 1984 diventa consulente musicale per il Festival “Ballo, non solo” all’interno della celebre Estate Romana ideata dall’Assessore alla Cultura Renato Nicolini e in quello stesso anno porta Fela Kuti a Roma.

Da quel momento in poi inizia una lunga amicizia con il musicista nigeriano, durata fino alla morte di quest’ultimo. Il rapporto intimo con Fela e la sua famiglia lo introduce nella comune di Kalakuta, un privilegio che solo pochi bianchi hanno avuto.

Questo è un film sull’amicizia ma anche sulle inevitabili diversità culturali e a volte sulle incomprensioni, e alla fine ciò che colpisce maggiormente è l’atteggiamento disarmato di Avantario, uomo occidentale pronto a farsi invadere dall’Africa, continente abituato a vedere per troppo tempo altri uomini occidentali vogliosi di invaderlo.

È anche un film su un film che non è mai stato realizzato: il desiderio di Avantario infatti era quello di girare un film sulla vita e la carriera di Fela, sulla sua influenza politica, sulla Repubblica di Kalakuta – una comunità autoproclamatasi indipendente dal governo nigeriano, all’epoca controllato dai militari, i quali non apprezzarono affatto i suoi proclami di pace e giustizia sociale al punto da fare, nel 1977, una violentissima irruzione, distruggendo strumenti musicali e arredi, dando alle fiamme il generatore, massacrando di botte i suoi abitanti, stimati in circa un centinaio, tra cui le ventisette coriste di Fela, che furono picchiate a sangue e alcune violentate (in seguito Fela le sposò tutte, col desiderio, così spiegò, di restituire loro la dignità e di farle diventare “principesse”).

La madre di Fela, Funmilayo Ransome-Kuti, celebre attivista politica e femminista (fu anche la prima donna in Nigeria a guidare un’automobile), strenua sostenitrice del diritto di voto per le donne, fu gettata da un balcone riportando ferite che in tre mesi la condussero prima in coma e poi alla morte. Aveva 77 anni. Lo stesso Fela fu massacrato, gli ruppero un braccio e una gamba. «Potevo sentire le ossa che si rompevano sotto i colpi», dichiarò in seguito.

Fela

Fela cambiò molte volte idea su questo film, dando l’assenso e poi negandolo, e alla fine non se ne fece nulla. Avrebbe dovuto essere una ricostruzione con attori e con Fela nella parte di sé stesso, e qui Vicari non ha potuto esimersi dal fare una battuta spiritosa: «Io ho avuto difficoltà a dirigere Santamaria che doveva soltanto parlare; avete presente cosa avrebbe voluto dire dirigere Fela Kuti? Un compito impossibile!».

Per fortuna Avantario (scomparso nel 2003, sei anni dopo Fela) aveva conservato una grande quantità di filmati realizzati durante i suoi numerosi viaggi a Lagos per passare del tempo con Fela e sua moglie li ha messi a disposizione di Vicari che, per arrivare a completare l’opera dal punto di vista storico, ha attinto anche da altri 47 archivi. 

Per sua stessa ammissione, Vicari non è un esperto di tematiche geopolitiche africane, non è un esperto di musica proveniente dal continente africano, non è un fan della musica di Fela Kuti – «sì, prima di fare il film conoscevo il suo nome e avevo ascoltato qualche disco, come tutti penso, ma io sono nato rockettaro e rockettaro morirò», e ciò gli ha permesso di concentrarsi maggiormente sul tema che più gli stava a cuore, vale a dire il rapporto tra Fela e Michele, il viaggio anche interiore di quest’ultimo, la scoperta dell’animismo sotto la guida dell’amico nigeriano, la capacità di comunicare attraverso i sogni, la scoperta del socialismo africano in chiave anticapitalistica e antiamericana.

«Fela Kuti was my living God».

E poi, come un fulmine a ciel sereno, arriva la notizia della morte di Fela, e allora assistiamo a questo viaggio nel dolore, con quell’immagine potentissima di Michele, unico bianco ammesso sul balcone che domina la folla sottostante, che, come in trance, riesce solo a pronunciare la frase «Fela Kuti was my living God».

Seguiranno giorni di silenzi, di sguardi attoniti, di vuoto insopportabile, fino all’arrivo del pianto, irrefrenabile, inconsolabile. Il Presidente Nero è morto, viva il Presidente Nero!

«Con questo film ho provato a raccontare una storia semplice ma potente, quella di un ragazzo che si confronta con un mito vivente, tentando di realizzare un film impossibile. Una storia che suona, balla, fuma, ama, viaggia, che ha il sapore dell’Africa, della politica, degli anni 70 e 80 e che supera ogni forma di colonialismo, anche quello “interiore” che ancora oggi ci portiamo dentro» - Daniele Vicari 

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