In un’estate tendenzialmente quieta e piuttosto avara di polemiche jazzistiche (fa eccezione la sconcertante topica dell’amministrazione di Salaparuta, che, dando seguito a un post pieno di inesattezze storiche e culturali che magnificava il trombettista di origine siciliana Nick La Rocca come “inventore” del jazz, ha fatto realizzare un murale con la faccia di… Bix Beiderbecke) si è fatto notare un interessante articolo della giornalista e critica musicale americana Michelle Mercer che commenta la vivacità dei video YouTube dedicati all’analisi della popular music e i cosiddetti “reaction video”.
Autrice schietta e esperta (ha lavorato per anni alla NPR ed è biografa di Wayne Shorter), la Mercer analizza alcuni canali YouTube, sottolineando quando il mezzo audio/video sia efficace e immediato, in molti casi assai più della scrittura, nel veicolare – specialmente a nuovi pubblici – contenuti e analisi musicali.
Puoi leggere l’articolo di Michelle Mercer qui.
Il tema è certamente interessante e vale la pena forse di provare a delinearne qualche contorno, anche perché nel titolo del suo pezzo la Mercer parla di “music criticism”, quando in effetti i video che cita – e nel dibattito social conseguente alla pubblicazione ha serenamente ammesso la forzatura – sono piuttosto lontani da quello che comunemente intendiamo come critica.
Un paio di salti indietro nel tempo.
Il primo risale ormai a più di una ventina di anni fa, quando stavamo costruendo la redazione di AllAboutJazz Italia e proponiamo a un paio di persone che lavoravano, con grande esperienza e competenza, sul jazz alla radio di contribuire con le loro recensioni.
Il rifiuto, gentile, era accompagnato dalla quasi lapalissiana constatazione che il loro lavoro era quello di fare ascoltare e conoscere la musica, ovviamente parlandone per presentarla e contestualizzarla, ma senza alcun bisogno di quel processo di critica e giudizio che era tipico della stampa specializzata, cartacea o web che fosse.
Se sulle prime ci sono rimasto un po’ stranito, ma in fondo non era una cosa difficile da capire: una volta che puoi condividere l’oggetto della tua attenzione musicale nella sua “essenza” (cioè lo ascoltano i tuoi ascoltatori come lo ascolti tu), una gran parte del “senso” di una descrizione e critica risulta piuttosto ridondante, come insegna bene quello che è successo alla critica nell’era dello streaming (ne riparleremo).
Il secondo è più recente e lo devo a un paio di miei allievi al conservatorio, che, nell’accalorato scambio di idee che prende talvolta il sopravvento in aula, mi hanno fatto conoscere il canale YouTube di Adam Neely, forte dei suoi 1 milione e 700mila iscritti.
Tra lezioni, quiz, musica personale (è un bassista), Neely non manca di trattare argomenti legati al jazz, dall’armonia di Shorter ai problemi legati al viaggiare in aereo con il proprio strumento, passando per il dilemma se Laufey sia jazz o meno. Con tutti i distinguo del caso e l’inevitabile differenza culturale e di approccio, li trovo tutt’altro che inutili o mal fatti. Così come è interessante, in ambito jazz, il canale di Bret Primack, Jazz Video Guy.
Chiudiamo la pagina ricordi e torniamo al punto. Che sostanzialmente è questo: in un contesto comunicativo in “rapida” (oddio, YouTube il prossimo anno compie vent’anni…) evoluzione e in cui i media audio-video, Instagram, TikTok, YouTube, podcast, etc. hanno un ruolo dominante nel veicolare idee e opinioni, che ruolo può avere la critica musicale legata più tradizionalmente alla scrittura?
Uno degli appunti che sono stati subito mossi all’articolo di Mercer, lo dicevamo, è quello di “evocare” la critica musicale, quando in realtà gli esempi portati sono fondamentalmente legati all’analisi o alla didattica, quando non a una funzione di più giocoso intrattenimento. E in fondo, tra l’altro in un contesto fortemente US-centrico, molti di questi video sembrano più dei nipotini dei classici video didattici che si commercializzavano in VHS o DVD che non della tradizione critico-giornalistica sul jazz.
E’ un punto che potrebbe essere già dirimente, se volessimo solo limitarci a un commento dell’articolo. In realtà forse vale la pena di forzare il ragionamento e provare a capire se e come l’utilizzo dei mezzi e dei linguaggi legati al video possano in qualche modo portare un ragionamento critico sulla musica su un piano ulteriore di condivisione.
Lo dicevamo prima ed è un po’ una sorta di elefantino nella cameretta di chi si occupa di scrivere di musica: negli anni del boom dei supporti discografici la critica musicale ha svolto principalmente (con le ovvie differenze di qualità e di profondità argomentativa, perdonate qui la generalizzazione del discorso) una funzione di “intermediazione” tra il fruitore e l’oggetto da comprare o non comprare.
Certo chi leggeva la stampa specializzata (e anche le pagine culturali dei quotidiani) era interessato anche al raffinato contesto analitico-critico, ma di base leggeva una recensione o un articolo per capire se valeva la pena spendere dei soldi per un disco o un biglietto per il concerto di questa o quell’artista. Se vogliamo girarla meglio, lettrici e lettori erano abituati a leggere recensioni per sapere se comprare o no il tal disco e in questo modo acquisivano familiarità anche con il discorso critico, le posizioni, gli stili di chi recensiva, le tendenze, le discendenze e i gossip, ampliando così la funzione della critica a quella, come sottolinea giustamente Guglielmo Bottin con cui mi sono confrontato sul tema, di formare il gusto di determinati gruppi sociali.
Una volta venuta meno questa necessità di “consigli per gli acquisti”, con la progressiva possibilità per chiunque di accedere direttamente all’ascolto di un disco – e fermarsi lì oppure decidere di comprarlo in qualche formato – e, tra l’altro, con la contemporanea proliferazione di opinioni e giudizi più o meno formalizzati e più o (molto più spesso) meno professionali in blog, social media e web magazine autocostruiti, si è giunti più o meno, parafrasando i R.E.M. alla “end of the critic as we know it”.
In quest’ottica, podcast e playlist (io stesso, per il Giornale della Musica, ho tenuto per un po’ una podcast, Along Came Betty, dove raccontare storie, ma anche novità discografiche) si ricongiungono a quanto mi avevano detto i colleghi radiofonici interpellati più di vent’anni fa: "perché mai scrivere, analizzare e giudicare, quando posso comunque selezionare, scegliere e fare ascoltare la musica che penso possa interessare a chi mi ascolta?”
Non è un caso che, sempre più, le testate online, anche quella che state leggendo, integrino link audio e video, da YouTube, Spotify, Bandcamp etc. ai propri articoli e recensioni.
Non è un tema nuovo, ovviamente: ciascuno risponde alle nuove esigenze come crede (dell’ottima critica si può e si deve continuare a fare anche solo con le parole), ma lo spunto dell’articolo di Michelle Mercer spinge a chiedersi se e come si possano trasferire gli obbiettivi e le virtù della critica (e non solo dell’analisi più corrente) nel formato video.
Non serve scomodare McLuhan per rendersi conto che il mezzo influenza il messaggio e il puro trasferimento di una recensione o articolo scritto su video è operazione piuttosto inutile e forse anche controproducente. Oltre a una certa dimestichezza con editing, tecnica, sovrimpressioni, effetti, varietà delle riprese, idee visive, è chiaro infatti che l’efficacia di un contenuto video dipende anche dalle qualità performative di chi sta davanti alla camera (e anche da una serie di economie che sono un po’ più complesse che il semplice postare un articolo), così come le “penne” più accattivanti sono sempre state le più lette e seguite.
Si può essere critici o scrittrici e analisti preparatissimi e eccellenti nella scrittura, ma non avere una buona presenza video (o anche semplicemente voglia), così come all’opposto ci sono persone che “bucano” lo schermo, che hanno naturalmente una facilità con il mezzo, ma non necessariamente dicono cose particolarmente interessanti. Mediamente la fanno da padrone le recensioni dei dischi, con uno stile che definirei “gonzo-nerdy”, come fa il seguitissimo Anthony Fantano con il suo theneedledrop che trovo personalmente noiosissimo.
Si può immaginare che qualche figura competente si faccia incuriosire e si metta alla prova anche come YouTuber o in reel di Instagram, così come magari qualche “natural born influencer” inizi ad acquisire strumenti e competenze più articolati (non molto facile in un mondo in cui le visualizzazioni si fanno più con i “wow” e le trovate che non con i contenuti, ma comunque…) e comunque ci son già a ogni livello – dal più “casereccio” all’hyper-pop, dall’egocentrico al “corporate” – degli esempi di successo, come abbiamo visto con Fantano, ma anche con il popolarissimo Rick Beato, Todd in the Shadows, Dead End Hip-Hop, Brad Taste in Music, alcune sezioni di Pitchfork, The Quadruple Agent, Professor Skye e molti altri che potrete scoprire da voi.
Come vedrete si tratta comunque di un genere a sé stante, comunque la si prenda, che dipende oggi più che mai dalle capacità del singolo di immaginare un formato, di riempirlo di contenuti interessanti e accattivanti, di avere la costanza di crescere insieme ai propri followers, di dare a questo formato un senso che vada al di là del trend a rapida obsolescenza. Mica facile, direte voi. Non c’è dubbio.
E i modelli di business che regolano YouTube e simili sono molto diversi da quelli cui è abituato mediamente un editore: vanno capiti, gestiti, accettati nei rischi e nelle opportunità. Nel caso delle analisi musicali e dei tutorial per gli strumentisti, per non dire di cose più leggere come i “reaction video”, un bacino d’utenza potenziale è più facilmente riconoscibile, mentre per la critica è tutto da costruire, dal momento che le generazioni più recenti sono mediamente disabituate a immaginare il discorso critico come utile accessorio alla propria passione musicale (che poi, dai, anche quarant’anni fa, per ogni studente o studentessa che leggeva una rivista di musica, ce n’erano altri nove che allegramente ignoravano critica e recensioni e compravano dischi secondo il proprio gusto) e quelle storicamente interessate alla critica tengono – per età e identità – posizioni decisamente più nostalgiche e conservatrici.
Intanto, mentre scrivo, nemmeno a farlo apposta, Bandcamp annuncia che è sbarcato su TikTok e non è forse un caso che per ora abbia affidato la “faccia” a tre giovani content creators, specificando che “potete aspettarvi di vedere apparizioni semi-regolari di membri del team editoriale di Bandcamp e di altre persone provenienti dall'universo di Bandcamp”.
Opportunità? Sfida impossibile? Nostalgia che forza la logica della comunicazione globale? Dietro il discorso critico, una volta abbandonata – nel bene e nel male – la funzione di tastemaking ora direttamente affidata, come un turacciolo in un torrente, alle correnti vorticose del triangolo tra marketing, influencers e consumatori/prosumers, resta viva e urgente la voglia di ragionare in modo un po’ più articolato della musica e del rapporto che stabiliamo con essa.
Ci sono sempre dietro l’angolo il Lucignolo dell’Accademia o quello del costume/sociologia, entrambi interessanti a patto di non elevarli a totem del discorso. C’è un linguaggio da re-immaginare e forme nuove da plasmare. Ci sono molte storie che attendono di essere raccontate e dinamiche che meritano di essere analizzate. L’unica è provare a avventurarsi un po’ fuori dalle rispettive comfort zones, ma può valerne la pena.