Bulat Okudžava, chi era costui

Un libro di Giulia De Florio e un disco di Alessio Lega, entrambi per Squilibri, per scoprire uno dei maestri della canzone d'autore sovietica

Bulat Okudzava al Premio Tenco
Bulat Okudzava al Premio Tenco 1985, con Dave Van Ronk e Francesco Guccini
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La biografia di Bulat Okudžava taglia di netto la seconda metà del Novecento sovietico, nella sua drammaticità che la rende unica, ma che – in fondo – poco di eccezionale ha, per chi ha in mente le vicende russe. 

Nato a Mosca nel 1924 ma di origine georgiana e armena, Okudžava viene da una famiglia di solida fede comunista. Il padre è un pezzo grosso del Partito in Georgia, che nel 1937 sceglie – come molti – il cavallo sbagliato, e finisce fucilato. O forse neanche sbaglia a scegliere, visto che ribadirà fino alla fine la sua opposizione all’ala trockista: «Chi conosce la storia sovietica (e forse tutta quella russa)» scrive Giulia De Florio a proposito «sa che la farsa e la tragedia, di rado la logica, ne sono i pilastri». 

«Chi conosce la storia sovietica (e forse tutta quella russa) sa che la farsa e la tragedia, di rado la logica, ne sono i pilastri». 

La moglie, madre di Bulat (che è poco più che un bambino), si reca dal vecchio amico Berija per avere notizie del marito. Finirà rapidamente in un gulag, dove passerà – in due riprese – una ventina d’anni.

È per redimere la propria immagine di figlio dei “nemici del popolo” che Okudžava si arruola, nel 1942, quando ancora non avrebbe l’età per farlo. Per quanto combatta per poco più di tre mesi, la guerra è destinata a lasciare un segno sulla sua opera. Nel 1955 si iscrive al Partito comunista, spesso mal tollerato anche negli anni del “disgelo” (nel 1972 viene espulso e poi reintegrato). 

Scrittore di un certo successo anche oltrecortina, Okudžava si afferma però nei circoli intellettuali di Mosca come “canta-poeta”, bardo con la chitarra, ispirato in questo – pare – dalla tournée di Yves Montand sponsorizzata dal Partito comunista francese (sull’influenza a livello di ispirazione che la chanson francese ha avuto nella nascita di una canzone d’arte in Europa, prima o poi, bisognerà fare un lavoro veramente approfondito). 

Oggetto di fama sotterranea, registrato e diffuso in maniera semiclandestina per molti anni, Bulat Okudžava diventa il cantore  per eccellenza di Mosca e dei suoi quartieri popolari, ma anche della guerra e dei mutamenti della capitale e dell’Unione Sovietica tutta (“Perestroika” si intitola un brano del repertorio più tardo). Muore nel 1997, in tempo per vedere l’inizio della Russia moderna post-sovietica e post-capitalista, accompagnato in corteo per le vie di Mosca da migliaia di persone.

Bulat Okudzava - Giulia De Florio - Squilibri

Quello di Bulat Okudžava è un nome che echeggia da decenni, in Italia, tra gli appassionati di canzone d’autore e di Unione Sovietica (due categorie che si sono spesso sovrapposte, negli anni d’oro). Almeno dal 1967, anno in cui Michele Straniero pubblica per i Dischi del Sole Un nastro da Mosca 1960/1967. Canzoni del disgelo cantate da Bulat Okudžava, una incisione semiclandestina in qualche modo uscita dai confini sovietici (il primo disco “ufficiale” di Okudžava in Russia risale all’anno successivo). O, più decisamente, dal 1978, anno in cui il suo nome fu tirato in ballo per la prima volta dallo stesso Straniero come possibile Premio Tenco. Il riconoscimento arrivò infine nel 1985, dopo lunghe operazioni di contatti e di intelligence (raccontate con un misto di nostalgia e divertimento da Sergio Secondiano Sacchi nel suo saggio introduttivo al libro di cui parliamo qui).

Bulat Okudzava - Un nastro da Mosca - Squilibri

Nonostante questo interesse per molti versi pionieristico, anche reiterato negli anni successivi, la figura di  Okudžava è rimasta un affare per pochi, un nome da citare quando capita di parlare di canzone russa, ma – appunto – poco più di un nome.

Non è difficile capire perché: da un lato, certo, Okudžava – che è stato uno dei maestri della canzone d’autore sovietica, superato in fama internazionale forse solo da Vladimir Vysockij – incarna in pieno un certo “mito” del cantautore ben caro all’Italia: cura del testo e alta qualità letteraria, storia personale affascinante, le registrazioni casalinghe e clandestine chitarra e voce… a cui si aggiungeva una oggettiva difficoltà nel reperire informazioni reali sulla sua vita e le sue canzoni.

Dall’altro, se le difficoltà nell’avvicinarsi al repertorio e all’arte di Okudžava ne aumentavano il fascino per quel manipolo di intellettuali interessati alla canzone, lo rendevano però di poco o nullo interesse per la discografia italiana e per il pubblico di massa: come diffondere un repertorio poetico in una lingua sconosciuta ai più, e con la cortina di ferro in mezzo, pure? Se l’Okudžava scrittore aveva avuto qualche seguito anche oltre la cerchia degli slavisti (soprattutto con il suo secondo romanzo, Il povero Avrosimov), il cantante era rimasto oggetto di culto semiprivato. In sostanza, la sua apparizione nel 1985 al Premio Tenco, con le traduzioni di Duilio Del Prete, si era ridotta ad aneddoto di chi c’era, ammantata nel mito come molte esibizioni sul palco dell’Ariston. (E a ragione, considerando che il Premio andò a Okudžava e a Dave Van Ronk, in una brillante mossa diplomatica. e mediatica del patron del Tenco Amilcare Rambaldi).

Dunque, un valore particolare assume l’iniziativa dell’editore Squilibri, che in una ammirevole coincidenza crossmediale fa uscire un disco (con ampi apparati scritti) e un libro (con due cd allegati) dedicati a Okudžava.

Il primo, intitolato Nella corte dell’Arbat, è opera di Alessio Lega – che da anni si dedica alla traduzione di Okudžava, usando il francese come lingua-ponte e collaborando con la slavista Giulia De Florio.

Bulat Okudzava - Giulia De Florio - Squilibri

Il secondo, Bulat Okudžava. Vita e destino di un poeta con la chitarra, opera della stessa De Florio, esce invece nella collana I Libri del Club Tenco, ed è una snella e documentata monografia che ripercorre la vita e l’arte del poeta-cantante, la prima in italiano. Il volume è completato dalla rimasterizzazione del citato Un nastro da Mosca 1960/1967 curato da Straniero e dalle registrazioni inedite del Premio Tenco 1985 (che sono senza dubbio la parte più emozionante di tutto il pacchetto). 

«Okudžava ha delle melodie sublimi, commoventi, giocate su poche mosse, su fremiti di variazione».

Sono due prodotti indipendenti ma fruibili insieme, entrambi pensati per un pubblico di appassionati e curiosi, non necessariamente specialisti di canzone: come pochi altri prodotti editoriali di questo genere, c'è da dire, si rimane rapidamente affascinati dalle vicende di Okudžava. L’anedottica spicciola rimane sullo sfondo, a vantaggio di una trattazione scientifica, per quanto condotta in tono divulgativo (il libro) e della reale possibilità di ascoltare le melodie di Okudžava (i dischi): «Okudžava ha delle melodie sublimi, commoventi, giocate su poche mosse, su fremiti di variazione», scrive Lega nel capitoletto che introduce il disco, e dopo averle ascoltate è difficile dargli torto. Come tutti i grandi cantautori, Okudžava era anche un grande musicista.

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