Budgie e Siouxsie, un amore tossico
The Absence. Memoirs of a Banshee drummer è la cruda autobiografia di Peter Edward Clarke, in arte Budgie
09 ottobre 2025 • 8 minuti di lettura
Da Liverpool alle platee di tutto il mondo, le vicende professionali e sentimentali di Peter Edward Clarke in arte Budgie raccontate in prima persona in maniera cruda e coraggiosa nella sua autobiografia The Absence. Memoirs of a Banshee drummer (Orion Publishing Co).
Budgie aveva compiuto da poco 22 anni quando fu chiamato nel settembre del 1979 a sostituire Kenny Morris, diventando così il batterista dei Banshees, ruolo che ricoprì fino al 1996, quando il gruppo si sciolse quasi per inerzia, senza che i membri neanche lo decidessero insieme: l’avventura, cominciata per gioco il 20 settembre 1976 al 100 Club di Londra con una formazione che, oltre a Siouxsie e Steve Severin, vedeva alla batteria Sid Vicious (in seguito bassista dei Sex Pistols per poco meno di un anno, per poi morire di overdose all’inizio di febbraio del 1979) e alla chitarra Marco Pirroni (poi nei Rema-Rema e quindi negli Adam & the Ants), era comunque durata 20 anni, non pochi avendo dovuto superare diversi cambi di formazione (dopo Pirroni i chitarristi furono ben sei : John McKay, Robert Smith in due momenti diversi, John McGeoch, John Valentine Carruthers, Jon Klein e Knox Chandler).
– Leggi anche: John McGeoch, il miglior chitarrista di sempre
Ma sui Banshees tornerò più avanti, per prima cosa mi devo occupare del giovane Peter: ci è rivelato che il soprannome Budgie ha un legame coi pappagallini – in inglese budgerigar, termine spesso abbreviato in budgie – perché quand’era un ragazzino di St Helens, una cittadina del Lancashire a dieci miglia da Liverpool, Peter Clarke li allevava. Addirittura col ricavato delle vendite riuscì a comperarsi la sua prima batteria, quella stessa che usò anni dopo con le Slits, prima nel 1978 nel Sort It Out Tour dei Clash in cui loro erano il gruppo di spalla e poi in Cut, il loro album d’esordio del 1979, durante la registrazione del quale il produttore Dennis Bovell gli insegnò come integrare i reggae beat all’interno del proprio stile.
– Leggi anche: All’inizio era il ritmo: la storia delle Slits
Il soprannome Budgie gli fu dato dai compagni di band Holly Johnson e Paul Rutherford. In quanto parte della leggendaria scena musicale del periodo punk di Liverpool, creatasi soprattutto intorno al celebre locale Eric’s, lui suonò prima negli Spitfire Boys («la mia prima gang») con Paul e poi nei Big in Japan con Holly – qualche anno più tardi i due formarono i Frankie Goes to Hollywood e diventarono miliardari.
Il 14 maggio 1977 gli capitò di essere tra il pubblico presente al concerto che Siouxsie & The Banshees tennero nel già citato locale ma, come riporta nel libro, non rimase particolarmente colpito dalla personalità della frontwoman. Come vedremo, qualche anno più tardi il suo giudizio cambiò radicalmente.
Gli Spitfire Boys erano, a suo dire, «naif, stupidi e incoscienti, eppure intenzionati a fare qualcosa»: una frase che riassume lo spirito di quel tempo, ricordato perfettamente nei tre capitoli iniziali dedicati a Liverpool, una sorta di prologo alla sua successiva carriera musicale. È qui che scopriamo il motivo del titolo, The Absence: Peter, ancora bambino, assiste alla morte improvvisa della madre e questa assenza dolorosa lo segnerà per il resto della sua vita, fornendogli al contempo le giustificazioni – a mio modo di vedere non sempre plausibili - per comportamenti irrazionali, a volte violenti e senza dubbio auto-distruttivi.
– Leggi anche: La seconda rivoluzione di Liverpool
Dopo lo scioglimento dei Big in Japan e la fine della breve relazione con Jayne Casey - cantante del gruppo e poi dei Pink Military, diventati Pink Industry dopo l’eccellente album Do Animals Believe in God? uscito nel 1980 - Budgie lasciò Liverpool per trasferirsi a Londra, portando con sé il suo nuovo nome: «Peter stava scomparendo e Budgie stava prendendo il suo posto, con tutte le conseguenze del caso».
Fu la mossa giusta per la sua carriera e la sua creatività: unirsi alle Slits in tour con i Clash gli diede la possibilità di avere Topper Headon come mentore, da lui ricordato con gratitudine in alcuni passaggi del libro. Quando fu invitato a unirsi ai Banshees, era sufficientemente fiducioso nei propri mezzi che accettò. La parte dedicata al periodo trascorso nelle Slits è deludentemente breve nonché imbarazzante, soprattutto quando scrive di aver dovuto lasciare la band per evitare di innamorarsi di una delle componenti – il suo narcisismo è una delle costanti di questo libro.
A un osservatore esterno queste mosse possono sembrare colpi di fortuna ma questi passi nell’ignoto erano in realtà dettati dall’impulso a continuare a muoversi, a scappare da quell’assenza che dà il titolo al libro. «Potevo dire sempre sì senza pensare alle conseguenze. Che cosa avevo da perdere? Ci vollero molti anni per capire che ciò che avevo da perdere era il senso della mia propria identità». L’assenza dunque, la costante corrente sotterranea di questo libro, la causa – l’unica? - della sua continua solitudine, della sua disastrosa dipendenza dall’alcol e della sua relazione con Siouxsie destinata all’insuccesso.
C’è un parallelo toccante quando scopriamo che anche Susan Janet Ballion (questo il vero nome di Siouxsie Sioux) ha perso un genitore, suo padre; in entrambi i casi c’erano anche altri traumi. In definitiva erano due anime che avevano subito danni che, in un’alternanza continua di intenso amore e intensa rabbia, potevano solo farsi del male a vicenda. Anziché parlare e cercare di affrontare insieme le rispettive assenze, hanno finito per tenere comportamenti che hanno dato come risultato la somma di tali assenze, con relativo contorno di abuso di alcol e cocaina nel fallimentare tentativo di compensarle.
Malgrado ciò e lo squilibrio di potere che c’è sempre stato tra i due – ovviamente a favore di Siouxsie – la loro relazione è durata 26 anni, tenuta faticosamente nascosta i primi anni per paura di turbare le dinamiche interne del gruppo e poi sfociata in un matrimonio durato 17 anni, molti dei quali trascorsi in una casa di campagna nel comune di Condom, nella Francia sud-occidentale. Probabilmente ciò è dovuto al loro ininterrotto legame creativo, e mi riferisco soprattutto allo spin-off dei Banshees, the Creatures. Budgie lo ammette: «Sono ancora convinto che essere durati così a lungo sia stato un gran risultato, molto più a lungo di molti rapporti musicali o personali che conosco, e in maniera continuativamente prolifica. Ecco, questa prolificità è forse la chiave della nostra longevità come coppia».
Malgrado la disfunzione nella relazione e all’interno delle varie formazioni dei Banshees, ci sono momenti più leggeri in questa storia. Persino in una goth band la vita in studio e sulla strada concede un po’ di divertimento e frivolezza, per non citare il glamour in giro per il mondo. Ho sempre pensato che i Banshees, almeno quelli degli inizi fino a Kaleidoscope, fossero, per così dire, anti-rock, ma il libro rivela che in realtà il gruppo ha sempre voluto far parte del meccanismo musicale (secondo Budgie loro rimasero delusi per non essere stati invitati al Live Aid), con tutto quello che offriva: detto diversamente, si concessero con gioia al sesso, all’alcol e alle droghe. Insomma gli piaceva spassarsela tra sistemazioni sfarzose e dunque costose, viaggi e dispendiosi abiti sartoriali: a un certo punto Budgie racconta che per avere i capelli così chiari passava 8 ore in un salone di bellezza tracannando nel frattempo un paio di costose bottiglie di Chablis.
Come scrittore Budgie evita la storia stereotipata “dalla dipendenza alla redenzione”: lui diventa sobrio più o meno a metà del libro ma ciò non risolve i suoi problemi. Solo dopo la fine del matrimonio e la terapia psicologica anti-alcol comincia finalmente a riguadagnare il già citato “senso di sé” e Peter riemerge dall’ombra di Budgie. Non ci è dato sapere se sia anche andato in analisi, soprattutto a fronte di due riferimenti in tempi diversi a incontri omosessuali forzati che potrebbero essere sfociati in altrettanti stupri: sono menzionati ma liquidati in poche frasi. Questi episodi hanno causato ulteriori traumi psicologici, oltre a quello dell’assenza, che la vittima ha cercato di curare in modalità “fai da te” con alcol e droghe. Aggiungiamo il suo senso di colpa di origine cattolica ed ecco spiegata la scimmia sulla sua schiena.
Il libro finisce bene? In effetti potrebbe: Budgie si è risposato, ha due figli e continua a partecipare a collaborazioni creative generalmente ben accolte – una tra tutte quella con Lol Tolhurst, batterista storico dei Cure, e il produttore Jacknife Lee, sfociata due anni fa nell’album Los Angeles (come ha detto scherzando Tolhurst, «qualcosa come i Tre Tenori ma con batteristi al loro posto»). E invece no, in fin dei conti il soggetto del libro non è questo: come dice il sottotitolo, qui siamo di fronte alle memorie di un batterista dei Banshees e l’epilogo, incentrato sul suo divorzio, sottolinea quella particolare storia, in modo crudo e brutale, scatenando reazioni opposte sui social tra chi ha apprezzato l’approccio diretto di Budgie e chi si è schierato a difesa di Siouxsie, dipinta nelle pagine finali come una presenza maligna ancora in preda all’alcol.
In definitiva questo libro intacca la leggenda dei Banshees e di Siouxsie in particolare? No, assolutamente no: lei è un simbolo e una diva e insieme come gruppo Siouxsie & The Banshees erano splendidi. Per quanto mi riguarda lo saranno sempre.
P.S. Tra le sue maggiori influenze Budgie cita John Bonham e - fermi tutti! - il Phil Collins di “In the Air Tonight”; inoltre ha il coraggio di citare il gruppo hard rock totalmente fuori moda che portava il suo stesso nome.
P.S. 2 Il povero John McGeoch, come sappiamo, fu espulso dal gruppo senza pietà (e senza stile) a causa del suo etilismo, quando anche i suoi compagni avevano in realtà lo stesso problema. Per onestà va detto che Budgie si dice dispiaciuto di non aver parlato per tempo del problema con John, quando invece quest’ultimo l’aveva fatto in precedenza con lui.
P.S. 3 Quando Budgie entrò nel gruppo non sapeva che questo era la versione punk dei Fleetwood Mac: Severin e Siouxsie erano stati insieme ma poi separati dal manager Nils Stevenson che convinse Severin che sarebbe stato meglio per il gruppo. Davvero illuminato, se non avesse preso lui il suo posto nel letto di Siouxsie. Non emerge in maniera esplicita nel libro ma è palpabile una costante tensione non detta (anche di natura sessuale) tra Severin e Siouxsie, che sono sempre stati gli elementi chiave della band, fin dai tempi del cosiddetto Bromley Contingent.
P.S. 4 Il libro ha anche i suoi momenti divertenti, specialmente quelli che descrivono le bevute fuori controllo, l’uso di droghe, i flirt e le avventure extra-coniugali. A questo proposito un episodio che mi ha fatto sorridere è quello di una spogliarellista conosciuta da Budgie in un club durante un tour americano: a lui piace molto, sembra fatta, ma è Siouxsie a finire a letto con lei. The Ice Queen strikes again!