Italodischi #6 2025 - Nuovi classici

In questa puntata Casino Royale, Lauryyn, Giorgio Poi, Roberto Sarno, Nicolò Carnesi, Calgolla, Rainbow Bridge, Electric Cherry

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01 ottobre 2025 • 6 minuti di lettura

Lauryyn
Lauryyn

Gli ultimi, tardivi scampoli di finta estate di fine settembre hanno la stessa temperatura e il mood esattamente opposto del periodo pre-feriale, quando le uscite discografiche della tarda primavera erano ottime e abbondanti, prima del calo fisiologico dei mesi più caldi, e costituivano una promessa intrigante per costruirsi un’ideale colonna sonora per le vacanze.

È interessante andare quindi a ripescare la collezione primavera-estate, per vedere cos’è davvero rimasto del periodo maggio-agosto del 2025.

Selezione in due puntate: pur cercando di essere ancora più sintetico del solito, c’erano davvero troppe cose di valore da non perdere. A questo primo giro, le proposte classiche, ovvero vicine a forme musicali più risapute. Iniziamo con…

Due dischi da non perdere

Casino Royale, Fumo

Confesso, vostro onore, che avevo completamente perso di vista i Casino Royale da, quanto?, 15 anni almeno. Non credo di essere l’unico: è che dopo la leadership acquisita negli anni Novanta e album memorabili come CRX o Sempre più vicini, la band milanese si era un po’ defilata e aveva pubblicato dischi di nicchia, ben lontani dai fasti degli anni d’oro.

È però possibile, e sicuramente auspicabile, che con Fumo ci sia un’inversione di tendenza, e che i Casino tornino alla ribalta come uno dei gruppi italiani più significativi di sempre. Questo nuovo disco è al contempo molto conforme allo stile storico della band, e qualcosa di completamente diverso. La continuità c’è nella scrittura delle canzoni, un po’ indolente ma contemporaneamente pungente e ritmicamente incalzante; uno stile che permane anche nelle occasioni in cui ci sono ospiti nelle parti vocali (Marta Del Grandi, ALDA).

Musicalmente c’è invece la grande novità: un salto quantico che incorpora sonorità elettroniche di ultima generazione nel tessuto delle canzoni, come se il dubstep fosse trasposto in un contesto di pop song, con esiti che fanno occasionalmente pensare ai Sault o a certa recente black music made in UK. L’infatuazione che il gruppo aveva avuto per il drum’n’bass a inizio millennio (ai tempi un po’ tardiva) è quindi maturata in uno stile molto più maturo e moderno, e l’esito è notevolissimo: una delle migliori prove dei Casino Royale, e tra le migliori uscite italiane dell’anno.

Lauryyn, Aritmia

Lauryyn ha molte somiglianze con Madame, ma non è mai stata a Sanremo; pertanto per adesso rimane, malgrado la relativa buona accoglienza di questo suo disco d’esordio, un segreto ben custodito per pochi. Proprio per questo, vi invito a scoprirla subito, perché è veramente brava. Interprete soul di grande intensità, testi giovanilistici ma di notevole intimismo espressivo, un sound modernissimo e convincente (solo le sonorità della “Outro” sono memorabili; un plauso al produttore Filippo Bubbico); per conto mio Aritmia potrebbe essere l’esordio dell’anno – nient’altro da aggiungere.

Songwriting

Ormai avrete capito che questa rubrica predilige i cantautori sui generis e non tanto quelli canonici; a questa tornata ne ho estrapolati quattro che meritano la vostra attenzione.

Giorgio Poi, Schegge

Giunto ormai al quarto album, bisognerebbe cominciare a prendere in seria considerazione Giorgio Poi; la veste dell’outsider comincia a stargli stretta. Trovo in lui una certa affinità col fin troppo celebrato Lucio Corsi; non ha lo stesso imprinting del glam (lui spazia piuttosto nel pop elettronico tra gli Ottanta e i Novanta, non a caso l’album è prodotto da Laurent Brancowitz dei Phoenix), ma l’atteggiamento, la sincerità di intenti, addirittura una certa ingenuità, sono tratti comuni.

Schegge però è un album più convincente, ha una scrittura cristallina, è orecchiabile ma non scontato, ha testi arguti e una musicalità che fa pensare a qualcosa tra Alberto Fortis e Alberto Camerini.

Roberto Sarno, Una pioggia sottile

Roberto Sarno è un cantautore toscano (nel suo passato una militanza nei Dive) che con Una pioggia sottile approda al terzo album. È un cantautorato che si stacca nettamente dal modello standard e che si fa anzi apprezzare per alcune caratteristiche che ne stanno agli antipodi: sound ricco e rigoglioso, elettricità al posto dell’acustica (a volte anche straordinariamente violenta, come nelle fragorose esplosioni chitarristiche di “Prima di un’estate”), flirt espliciti con l’elettronica. Tuttavia non ci si deve limitare all’aspetto formale, poiché la vera forza del disco sta al contrario in un’espressività emotiva fuori dal comune; specialmente per la voce di Sarno, mixata alta e dominante, che a tratti acquisisce una drammaticità addirittura dolorosa.

Nicolò Carnesi, Ananke

Ed eccoci ora a parlare di un artista che ha raccolto in carriera molto meno di quanto avrebbe meritato. Si tratta di Nicolò Carnesi, che pubblica il suo quinto album Ananke. Un album ambizioso, un concept dedicato al Mito con canzoni intitolate “Prometeo”, “Narciso” o “Amore e Psiche”. Ma è dal punto di vista musicale che ci sono le vere novità. Se a livello melodico siamo dalle parti di Colapesce Dimartino (non a caso Carnesi da qualche tempo è subentrato nelle loro band come chitarrista), gli sviluppi musicali delle canzoni sono barocche fioriture psichedeliche che rimandano agli anni Settanta, un po’ nello stile di Andrea Lazlo De Simone. Ma rimane intatta l’eleganza formale, malgrado un sound che a tratti appare vicino alla saturazione.

Law J. Dinero, Gloryland

Qui siamo in pieno nella tradizione: blues, gospel e country a formare “un’antologia di storie e vicende d’altri tempi”, secondo la cartella stampa. E infatti questo esordio sembra veramente un disco di americana inciso a Nashville, quando invece Law J. Dinero, che comunque canta (benissimo) in inglese, si chiama Lorenzo Valè e viene da Vicenza.

Come sia possibile che nel Nord Est italiano qualcuno possa innamorarsi in modo così definitivo delle tradizioni a stelle e strisce, è una domanda alla quale non mi sogno neppure di rispondere; mi accontento di registrare quanto Gloryland risulti credibile e sincero, con canzoni che compensano la relativa mancanza di originalità con una scrittura impeccabile (che a tratti ricorda quella di Mark O. Everett degli Eels: una garanzia, insomma).

Chitarre

C’è qualcuno là fuori che vuole ascoltare il rock’n’roll? Bene, ce ne sono buoni esempi anche in Italia!

Calgolla, Iter

La band è formalmente berlinese ma il suo leader nonché mente creativa, Emanuele Calì, è italianissimo e si è trasferito in Germania qualche mese dopo aver pubblicato l’esordio, Tuorlo, nel 2018. Iter è fondamentalmente un disco rock, ma ha dalla sua la capacità di spaziare con nonchalance tra molti sottogeneri diversi: a tratti suona post punk con un cantato declamato alla Talking Heads, in altri episodi parte un solo di chitarra che sembra di sentire i Van Halen, altrove si pensa ai gruppi noise anni Novanta.

Molta carne al fuoco, forse troppa, ma in realtà i Calgolla mostrano di saper maneggiare con abilità il rock chitarristico in tutte le sue forme; mica poco.

Rainbow Bridge, Soundtrack of a Silent Land

Nella lunga tradizione del rock psichedelico che unisce Jimi Hendrix agli Hawkwind ai Loop ai Warlocks, si inseriscono anche i pugliesi Rainbow Bridge, di fatto dei veterani, poiché questo è già il loro settimo album. Registrato in presa diretta senza orpelli di alcun tipo, il disco è una cavalcata chitarristica tutta strumentale che non ha la pretesa di inventare nulla, ma che risulta non di meno estremamente poderosa e in grado di dare sferzate di energia catartica. Solo per cultori del caso, naturalmente, ma sicuramente apprezzabile.

Electric Cherry, Cherry Heart

Gli Electric Cherry, quartetto romano giunto al secondo album, in teoria erano quanto di meno interessante mi potessi aspettare per i miei gusti personali: rock’n’roll classico tendente all’hard, con tipiche influenze blues, insomma un prodotto molto tradizionale che sulla carta aveva un appeal molto modesto. Poi, com’è come non è, continuavo a riascoltarlo e a dargli una seconda chance, poi una terza, e alla fine eccolo qui: devo ammettere che Cherry Heart alla fine è un ottimo disco, e basta.

Suonato benissimo, con un bel suono, cantato (in inglese) altrettanto bene, con parecchie canzoni eccitanti che ricordano un po’ i Bud Spencer Blues Explosion e comunque hanno sufficiente personalità per vivere di vita propria. Ogni tanto, un bel disco di puro rock’n’roll male non fa.