The Durutti Column, la dolcezza dell’anarchia

Partendo dalla storia dell’album The Return of The Durutti Column, Pierre Sauvanet ha scritto un’opera sull’estetica del vinile e le sue particolarità.

EB

30 ottobre 2025 • 7 minuti di lettura

Fact 14
Fact 14

Sta finendo il 1979 e Ian Curtis, il cantante dei Joy Division, passa ore a incollare un migliaio di copertine del primo album di The Durutti Column: lui, ventitreenne, è già sposato e ha una figlia, dunque quei pochi soldi che Tony Wilson, boss della Factory Records, gli dà per quel lavoro ripetitivo e noioso gli fanno comodo, mentre i suoi tre compagni stanno nella stanza a fianco a cazzeggiare e sfogliare riviste porno.

I due gruppi hanno firmato da poco per questa nuova etichetta di Manchester. Ah, dimenticavo: le copertine in questione sono in carta vetrata, fatte così, si dice, per distruggere i dischi vicini sugli scaffali, da un’idea del filosofo situazionista francese Guy Debord.

L’album in questione, The Return of The Durutti Column (FACT 14), è divenuto mitico almeno per queste due ragioni: la sua musica e la sua copertina.

La prima edizione consiste in 2.000 copie, ovviamente ricercatissime dai collezionisti (nella foto in apertura di questo articolo ne vedete una: è stata venduta a 800 euro in un'asta, nel 2024). Circa la metà di esse, a pensarci bene, conserva ancora tracce del DNA di Curtis, morto suicida il 18 maggio 1980 e ricordato nel brano “The Missing Boy”, incluso in LC (riferimento a Lotta Continua), secondo album del gruppo uscito l’anno seguente. 

C’era un ragazzo, lo conoscevo abbastanza, un’occhiata scambiata mi fece sentire bene, lasciando qualche segno ora è una leggenda.
The Missing Boy

Basandosi su fonti ben documentate, The Return of The Durutti Column di Pierre Sauvanet si concentra dapprima sul gruppo e sul suo leader Vini Reilly, per passare poi a interessarsi della questione dell’estetica generale del disco in vinile. Che cos’è che fa di esso un oggetto a parte, nella misura in cui non è solo un formato sonoro ma fornisce anche una forma alla musica? Nell’era della dematerializzazione è un caso se fa il suo grande ritorno?

Vini Reilly si unisce a The Durutti Column nel 1978. Questa prima versione del gruppo registra due brani per la prima uscita discografica (gennaio 1979) della Factory, l’ormai mitico EP A Factory Sample (FAC-2, perché FAC-1 è usato per un concerto), ma, dopo l’abbandono degli altri membri, la band diventa a tutti gli effetti il progetto solista di Reilly.

Se il libro porta come titolo il nome di un gruppo diventato oggetto di culto, è prima di tutto una dichiarazione d’amore verso il supporto in vinile e tutta l’estetica che lo circonda.

Registrato nel 1979 e pubblicato nel mese di gennaio dell’anno seguente, l’album The Return of The Durutti Column è un unicum nella produzione discografica del periodo, distante dalle sonorità che caratterizzano il cosiddetto post punk. Partendo dalla sua copertina, Pierre Sauvanet ricostruisce la traiettoria seguita dal gruppo inglese – forse farei meglio a dire da quello straordinario musicista nonché compositore che è Vini Reilly, accompagnato spesso da Bruce Mitchell alla batteria e Keir Stewart al basso -, prima di spostare la propria attenzione sulla bellezza del vinile, le incredibili realizzazioni grafiche che l’hanno accompagnato e il fenomeno (o la malattia?) del collezionismo.

Physical Graffiti dei Led Zeppelin e le sue finestre, Wish You Were Here dei Pink Floyd e la sua copertina ricoperta da una custodia che ha contribuito a costruire la sua reputazione, la scatola metallica contenente per l’appunto Metal Box dei PIL, simile a quella delle pizze dei film 16 mm, gran parte delle copertine della Factory Records, Fear of Music dei Talking Heads e quel motivo in rilievo che ricorda il piano anti-ribaltamento di un rack da 19”, e tanti altri ancora, e il cerimoniale che circonda l’ascolto di un vinile, un tempo condannato da quasi tutti dopo l’esplosione del CD.

L’autore ritorna in dettaglio sul 33 giri e il suo ascolto su solco che si fa dall’esterno verso l’interno (al contrario del CD), non esita mai a ricollocare il gruppo all’origine del titolo della sua opera tra aneddoti riguardanti altri album e le loro copertine o la loro stampa, e alla fine ci consegna un libro che non è mai stato così di tendenza come in questi ultimi anni, a riprova che l’oggetto in sé, quando accompagna un eccellente contenuto, possiede un interesse fuori dal comune che i prodotti dematerializzati non riusciranno mai a offrire.

La casa editrice di Marsiglia Le mot et le reste, sempre attenta, ha inanellato una serie di libri interessanti su artisti essenziali ma di non facile reperibilità nelle librerie: è il caso di The Durutti Column e la loro maniera di maneggiare l’eleganza venata di malinconia. È vero, questa è una caratteristica abbastanza ricorrente in quegli anni nei gruppi della Factory o della 4AD, ma The Durutti Column la declinano con un atteggiamento che definirei proustiano.

Ciò di cui ho sempre bisogno è la misericordia delle tue bugie
Red Shoes (1987)

Ma torniamo brevemente alla produzione di Reilly: LC (1981) e Another Setting (1983) presentano Bruce Mitchell, il suo collaboratore più regolare, Without Mercy (1984) aggiunge fiati e violini, e a partire da The Guitar and Other Machines (1987) Reilly comincia a scrivere canzoni più convenzionali, con parti cantate e altra strumentazione ad arricchire il suono.

Nel 1988 la sua chitarra caratteristica contribuisce a Viva Hate, il debutto da solista di Morrissey, per poi tornare a The Durutti Column, impiegando sequencer e campionatori per spostarsi verso un suono maggiormente influenzato dalla dance.

The Durutti Column, come abbiamo visto, è molto più che un semplice gruppo, e Vini Reilly è un musicista fuori dal comune, la cui opera ha tracciato un solco (termine che non impiego a caso, visto l’argomento discografico) unico nel paesaggio della musica alternativa. Nato dalle ceneri di un effimero gruppo punk, Ed Banger & The Nosebleeds, il progetto si evolve in maniera inattesa per diventare un’entità a parte, guidata da un approccio estetico singolare.

Il nome del gruppo fa riferimento a una colonna anarchica della guerra civile spagnola, quella comandata dal militante Buenaventura Durruti, ma anche al fumetto La retour de la Colonne Durutti, creato nel 1966 da André Bertrand, membro a Strasburgo dell’Internationale Anarchiste, che trascrisse il cognome in maniera errata.

Una curiosità: il grafico e anarchico Jamie Reid, scomparso due anni fa, è conosciuto soprattutto per le copertine ideate per i Sex Pistols; a questo proposito, durante la registrazione dell’unico album ufficiale del gruppo, vale a dire Never Mind the Bollocks, Here’s the Sex Pistols (1977), lui propose come titolo Where’s The Durutti Column?. La scelta di questo nome, allo stesso tempo storica e politica, contrasta non poco con la musica che Vini Reilly andrà a sviluppare. Lontana dalla rabbia e dall’energia bruta del punk, la sua musica è impregnata di una delicatezza e di una melanconia profonde. Già dal primo album, The Return of The Durutti Column, il tono è stabilito: prodotto da Martin “Zero” Hannett, il disco è una collezione di nove brani strumentali dove la chitarra di Reilly, sottile e aerea, si dispiega in un’atmosfera eterea.

Questo disco, che non esito a definire un capolavoro, può essere considerato il risultato del lavoro congiunto dei già citati Reilly e Hannett e di Tony Wilson, grande amico nonché fan di Reilly. Quando il suo feretro fece il suo ingresso, le navate della chiesa di Manchester dove fu officiato il suo funerale nel 2007 furono invase dalle note struggenti di “Sketch for Summer”, il brano d’apertura di The Return of The Durutti Column dell’amico Reilly, con quella chitarra suonata senza plettro.

Dopo il collasso della Factory nel 1992, Reilly registra per svariate etichette, mettendo in circolazione in maniera regolare nuovi lavori per tutti gli anni Novanta e arrivando fino al nuovo millennio, documentando la continua evoluzione del suono della sua chitarra e del suo stile compositivo e proseguendo a esplorare nuovi territori musicali, restando comunque fedele a una cifra sonora sempre riconoscibile. Reilly è stato capace di aggiungere al suo universo elementi di musica classica, di jazz, di folk e anche di musica elettronica, senza mai perdere di vista la forza espressiva della sua chitarra – però non fate mai l’errore di nominargli la musica ambient: sulla copertina di un suo album pretese che fosse scritto «questo non è un disco di musica ambient». Una discografia ricca di trenta album illustra questa diversità e questa ambizione creativa.

Vini Reilly
Vini Reilly

Come giustamente sottolinea Sauvanet, la musica, più ancora di altre forme espressive, ha la capacità di scavare all’interno della nostra anima e di riportare alla luce sensazioni e sentimenti che pensavamo persi, al punto di commuoverci fino alle lacrime: bene, questa definizione mi sembra particolarmente appropriata per la musica di Vini Reilly, The Durutti Column.

The Return of The Durutti Column per me continua a essere uno dei dischi più belli e magici mai realizzati.  
Steven Wilson, fondatore e frontman dei Porcupine Tree

P.S. Questo libro è disponibile solo in francese ed è acquistabile in versione Kindle sul sito di Amazon. Esiste anche il libro in inglese The Durutti Column – A Life of Reilly (Burning Shed, 2024), scritto da James Nice, già autore di Shadowplayers: The Rise and Fall of Factory Records (Burning Shed, 2010).

Nel corso dell’articolo ho fatto un veloce accenno al collezionismo, argomento su cui non mi sono dilungato per problemi di tempo e di spazio, però mi piace citare una frase dell’autore: «una collezione completa è una collezione morta»; a chi volesse approfondire l’argomento consiglio il bel documentario del 2011 Vinylmania – quando la vita corre a 33 giri del regista torinese Paolo Campana.