Alejo Perez, l'opera da Emma Dante ad Ai Weiwei

Intervista al direttore argentino Alejo Perez, al lavoro su Schreker ad Anversa prima della Turandot di Ai Weiwei all’Opera di Roma 

Alejo Perez con Emma Dante durante le prove de L’angelo di fuoco all’Opera di Roma nel 2019 (foto di Yasuko-Kageyama) 
Alejo Perez con Emma Dante durante le prove de L’angelo di fuoco all’Opera di Roma nel 2019 (foto di Yasuko-Kageyama) 
Articolo
classica

Alejo Perez non è certo una star fra i direttori d’orchestra della sua generazione. Eppure ogni sua esibizione lascia il segno. Argentino di Buenos Aires, 45 anni, Perez vanta una solida formazione di pianista, compositore (fra i suoi insegnanti ci sono stati anche Franco Donatoni e Peter Eötvös) e direttore d’orchestra, l’attività che negli ultimi anni lo ha assorbito quasi completamente.

Prima di diventare direttore musicale dell’Opera delle Fiandre da questa stagione, ha ricoperto lo stesso incarico per quattro anni fino al 2012 al Teatro Argentino di La Plata portandolo, si dice, allo stesso livello del prestigioso Teatro Colón di Buenos Aires. Molto legato al suo paese ma di casa in Europa, ha diretto nei principali teatri e festival, soprattutto opera (ne ha anche composta una, Tenebrae, per il Centro Sperimentale del Teatro Colón nel 1999) ma non solo. Anche in Italia è stato molto presente ma vanta un rapporto speciale con l’Opera di Roma, che da diverse stagioni lo invita regolarmente. Dopo il grande successo della scorsa stagione con L'angelo di fuoco di Prokof’ev con la regia di Emma Dante, a Roma tornerà in marzo per dirigervi Turandot con il debutto nella regia dell’artista dissidente Ai Weiwei

Le prove di Der Schmied von Gent di Schreker stanno entrando nel vivo a Anversa (la prima è in programma il 2 febbraio) quando lo incontriamo per questa intervista per i lettori del giornale della musica

Alejo Perez

I primi passi nella musica a Buenos Aires e come è nata la decisione di diventare un pianista prima e di passare quindi in maniera esclusiva alla direzione d'orchestra. 

«In realtà già da ragazzo avevo molto chiara l’intenzione di essere un musicista e soprattutto sognavo di diventare un compositore. Ho composto tantissimo e ho bruciato quasi tutto quello che ho composto in gioventù. Ho studiato prima da pianista e solo dopo l'università mi sono dedicato agli studi di direzione corale e d’orchestra, continuando in parallelo lo studio del pianoforte ma sempre con l'idea di diventare un musicista “integrale”».

«Ho composto tantissimo e ho bruciato quasi tutto quello che ho composto in gioventù».

«Credo che un vero musicista debba conoscere tutti gli aspetti della musica, sia quelli pratici che teorici. Per me comporre significava anche conoscere dal di dentro tutte le possibilità delle combinazioni strumentali, le tecniche musicali, le possibilità espressive della musica. All’epoca a Buenos Aires fondai anche un ensemble di musica contemporanea, l’Ensemble XXI, di cui ero anche il direttore pur mantenendo l’ottica del compositore. Abbiamo suonato molti pezzi miei ma ne abbiamo commissionato molti anche ad altri giovani compositori. È vero che una volta completato il mio percorso di formazione nella direzione orchestrale ho cominciato a interessarmi anche alla dimensione “sociale”, non volevo cioè restare tutto il giorno seduto al pianoforte o a soffrire sul tavolo di lavoro per creare un minuto di musica. La direzione è un’attività più interattiva, che ti obbliga a lavorare con gli altri». 

Poi è arrivata l’opportunità di proseguire gli studi in Germania dove, a Karlsruhe, ha incontrato Peter Eötvös. Com’è stata la esperienza con lui? 

«Sono arrivato in Germania grazie a una borsa di studio per un master. Alla fine ne ho fatti due in direzione d’orchestra. In quel periodo ho dedicato sempre meno tempo alla composizione e sempre più alla direzione. Che dire di Eötvös? Ha decisamente un profilo di musicista “integrale”: didatta, compositore, direttore d'orchestra e strumentista, oltre a essere un grande teorico e, secondo me, anche un umanista. È stato soprattutto una persona molto generosa con me: studiare con lui mi ha dato un’apertura davvero fantastica. Ho imparato più in due o tre semestri con lui che con nessun altro prima». 

Fra i suoi "maestri" di direzione d’orchestra ci sono stati anche Michael Gielen e Christoph von Dohnanyi, di cui è stato assistente: cos’ha imparato invece da loro? 

«L’aspetto più interessante come loro assistente è stato osservarli al lavoro durante le prove. Vedere cioè come risolvevano i problemi tecnici con l’orchestra e con i cantanti in modo così efficace e sempre con una conoscenza della partitura fenomenale». 

Di Michael Gielen si diceva fosse soprattutto un grande intellettuale della musica. 

«Un aspetto affascinante della tecnica direttoriale di Gielen, ma potrei dire lo stesso di quella di Boulez, era il distacco. Non dico freddo, ma Gielen manteneva sempre una distanza con gli orchestrali, che però gli consentiva di ottenere moltissimo. Nonostante il gesto freddo e analitico, le esecuzioni erano sempre calde ed emozionanti. Osservando il suo gesto si aveva come l'impressione che non desse tutto all’orchestra ma che si aspettasse soprattutto di ricevere. Forse questo atteggiamento spingeva l’orchestra a sentirsi obbligata a dare il massimo».

«Qualche volta con direttori che danzano sul podio o sudano dopo tre minuti dall’attacco, l’orchestra si sente un po’ esclusa. Se tutto il lavoro lo fa il direttore, a cosa serve impegnarsi di più?»

«Qualche volta con direttori che danzano sul podio o sudano dopo tre minuti dall’attacco, l’orchestra si sente un po’ esclusa. Se tutto il lavoro lo fa il direttore, a cosa serve impegnarsi di più?». 

Pur dirigendo molto repertorio sinfonico e contemporaneo, l’opera ha un peso preponderante nei suoi programmi. Cosa le piace del mestiere di direttore d’opera? 

«Credo che i grandi compositori mostrino il loro volto più autentico sul piano del lavoro teatrale. Si pensi a Verdi, a Mozart, a Strauss e ovviamente a Wagner: la chiave per capirli davvero, secondo me, passa sempre attraverso l’analisi di come descrivono musicalmente i loro personaggi o risolvono una situazione drammatica, cioè di come sentono e traducono in musica il tempo drammaturgico. Questo lo hai solo nelle opere. Mi piace anche molto la dimensione pratica del lavoro di direttore d’opera, cioè il rapporto con il palcoscenico, sempre ricco e arricchente».

«Un bravo direttore d'opera può dirigere bene anche il repertorio sinfonico, mentre non è necessariamente vero il contrario».

«A farlo bene, il mestiere dell’opera esige molti anni di esperienza, la capacità di interazione con i cantanti e con tutte le diverse personalità che concorrono a creare uno spettacolo. Impone anche l’essere sempre in ascolto di come ognuno respira la sera dello spettacolo e pronti a reagire con l’orchestra. Io dico sempre che un bravo direttore d'opera può dirigere bene anche il repertorio sinfonico, mentre non è necessariamente vero il contrario». 

Lei pensava già all'opera anche quando voleva diventare compositore o l’amore per quel genere è arrivato più tardi? 

«Il mio interesse per l’opera esiste da sempre ma con il tempo ho avuto la fortuna di avere moltissime opportunità, di cominciare a costruire un repertorio. Poco a poco sono stato affascinato da questo mondo. Oggi sento che la musica senza l’opera non è davvero piena, compiuta». 

Il suo repertorio operistico è estremamente vasto e diversificato: un riflesso dei suoi interessi o dipende piuttosto dalle occasioni che le sono state offerte? 

«Non amo dirigere proprio tutto. Ad esempio, non amo troppo il belcanto. È vero che non credo troppo alle specializzazioni. Penso che ogni angolo del repertorio si arricchisca mettendo insieme esperienze diverse. Per capire bene un Berio o un Ligeti occorre conoscere anche i maestri fiamminghi o Monteverdi o Gesualdo e viceversa. Così come per capire davvero Webern occorre passare per Schubert, Hugo Wolf, eccetera. Un mondo si arricchisce con la conoscenza di un altro mondo». 

Nel suo mondo non c’è spazio quindi per gli specialisti? 

«Sono semplicemente un po’ scettico sugli specialisti. Ma non vuol dire che penso che tutti siano capaci di fare tutto allo stesso livello. Certamente io ci metto tutto il mio impegno ma mi piace questa varietà nel repertorio». 

Ultimamente lei dirige molta opera tedesca da Wagner, a Strauss e Schreker: una passione speciale? 

«È vero ma dipende molto dal paese nel quale dirigo. In Italia mi si chiede spesso di dirigere il repertorio russo così come in Giappone. In Austria mi offrono quasi sempre titoli francesi. Nel mio paese o anche in Belgio, invece, dirigo tanto repertorio tedesco. Può sembrare strano ma sono sempre molto contento di rispondere positivamente a tutte queste offerte così diverse». 

Parliamo del suo ultimo incarico, quello di direttore principale all'Opera delle Fiandre. Lei ha detto che ha sentito una grande affinità con l'orchestra ... 

«All'Opera delle Fiandre ho già diretto Pelléas et Mélisande seguito dal Lohengrin, prima di assumere l'incarico di direttore principale in questa stagione. L’ho detto anche in altre occasioni ed è vero che ho sentito immediatamente una grande affinità con l’orchestra di questo teatro. Sono convinto che questa “chimica” sia essenziale per creare qualcosa di artisticamente valido nelle stagioni che verranno». 

La sua prima stagione all’Opera delle Fiandre si è aperta con il Don Carlos: che rapporto ha con Verdi? 

«Lo amo! Verdi è un mondo, è “il perfetto”! È uno di quei compositori assolutamente perfetti sul piano drammatico, musicale. Nelle sue opere tutto si sposa perfettamente con il testo, con il “timing”. E poi lo amano tutti: il coro, l’orchestra, i solisti e ovviamente anche il direttore d'orchestra. Per me dirigere Verdi è sempre una festa. Soprattutto a partire dalle sue opere più mature, adoro tutta la sua musica. La scelta di iniziare la stagione con quel titolo riflette soprattutto la volontà di aprire una nuova pagina di quel teatro con un grande pezzo che mostrasse tutte le notevoli capacità del teatro». 

Il secondo titolo sarà Der Schmied von Gent di Franz Schreker. Come mai la scelta è caduta su questo titolo rarissimo di un compositore abbastanza poco presente sulle scene liriche internazionali? 

«È un titolo strano ma anche interessante e la musica è bellissima e molto divertente. L'orchestra è enorme, come sempre in Schreker. Con il neodirettore artistico dell'Opera delle Fiandre, Jan Vandenhouwe, per la nostra prima stagione abbiamo pensato a due titoli che fossero legati alla storia delle Fiandre, come il Don Carlos inaugurale, ambientato in Spagna ma con la rivolta delle Fiandre sullo sfondo, e lo Schmied von Gent, composto da un non fiammingo ma ispirato a una leggenda locale». 

Questo Schmied von Gent è anche il suo secondo Schreker, dopo Die Gezeichneten all'Opéra de Lyon nel 2015. Si tratta però un lavoro profondamente diverso. Vuole dire qualcosa sulla musica? 

«Che si tratti di due opere profondamente diverse è del tutto vero. Die Gezeichneten è ancora il prodotto di un mondo decadente, post-romantico, orgiastico anche nell’estetica. Invece nella sua ultima opera Schreker ha voluto ritrovare una certa semplicità nel linguaggio e nelle forme – ci sono molte danze, marce, passacaglie, fugati, eccetera. – ma si tratta di quella semplicità che non intacca il linguaggio musicale, sempre vivido. Non lo paragonerei a Hindemith o a Krenek o alla musica “neo-barocca” degli anni Trenta, un po’ fredda, intellettualistica. Nel caso di Schreker l’approccio è sempre un po’ traversale, obliquo. Anche lui si rifà a un gusto medioevale, giustificata dal soggetto dello Schmied che proviene da una leggenda medievale. Così facendo, Schreker ha l’opportunità di esplorare tutti i linguaggi e i colori però reinventandoli. Cioè immagina gli ottoni come potevano suonare nel Cinquecento. Nella sua musica si ritrova anche una dimensione sensuale, e questo è interessante, soprattutto nell’apparizione dell’inferno ma anche del paradiso. Questi due piani nel mondo di Schreker non sono così diversi. Si tratta forse di una mia interpretazione personale, ma credo che Schreker si faccia beffa di una visione moraleggiante della storia: andare in cielo o essere condannati all'inferno in fondo non è molto diverso per lui. Ho la sensazione che Schreker non prenda troppo sul serio queste faccende».

La produzione del Don Carlos era firmata da Johan Simons, regista dal forte segno personale nella tradizione del teatro del Nord Europa. Schreker lo farà con il giovane regista Ersan Mondtag, astro nascente del teatro tedesco e assistente di personalità come Claus Peymann, Thomas Langhoff e Frank Castorf. Come si trova a lavorare con loro? 

«Diciamo che ho una lunga esperienza con il teatro tedesco e non è quindi una novità confrontarmi con il cosiddetto “Regietheater”. Ersan è alla sua prima esperienza con la regia lirica. Il mio ruolo sarà quindi quello di accompagnarlo, di guidarlo, cioè di fargli vedere come lavorare e interagire soprattutto con i cantanti. Per un regista che come lui viene dalla prosa l’opera è davvero un altro mondo. La dinamica del lavoro è completamente diversa. Con lui ci siamo incontrati oltre un anno fa per confrontarci sul lavoro da fare insieme, sulla concezione estetica, sulla realizzazione scenica. La vera collaborazione comincia adesso sulla scena di Anversa ma per ora sta andando tutto molto bene». 

 In questa stagione lei torna a Roma, dov’è ormai di casa. Dopo L'angelo di fuoco di Prokof’ev che ha diretto nella scorsa stagione con la regia di Emma Dante, in marzo dirigerà Turandot, titolo popolarissimo e non solo in Italia, ma con una firma registica insolita, l’artista dissidente cinese Ai Weiwei, anche lui al debutto nella regia lirica. Aspettative? 

«Con Ai Weiwei ci siamo già incontrati a Roma qualche mese fa per discutere del progetto ed è stato un incontro molto simpatico. Anche in questo caso dovrò guidare dolcemente la macchina del lavoro e ascoltare i suoi desideri, ma sempre sapendo qual è il passo necessario per arrivare alla prima ben preparati. I cantanti vanno guidati, occorre ripetere e rifare finché necessario. Per i registi che non hanno dimestichezza su come si fa l’opera entrare in questo mondo senza una guida può non essere facilissimo, specialmente per un lavoro di così grandi dimensioni e corale come Turandot». 

Turandot è anche un titolo popolarissimo, soprattutto in Italia: è preoccupato di deludere aspettative? 

«No, assolutamente. Anzi, è una bellissima novità arrivare a Roma con gli amici dell'Opera per lavorare su un’opera che per loro certamente non è nuova. Finora in quel teatro ho quasi sempre diretto lavori relativamente poco noti, come Lulu, Il naso, L'angelo di fuoco. Quando l’orchestra mi vede dice: "Rieccolo! Ora dobbiamo imparare di nuovo un pezzo che nessuno conosce!". Questa volta finalmente non sarà così». 

Cosa le piacerebbe realizzare come direttore principale all’Opera delle Fiandre? 

«Quello che mi rende più felice in questo incarico all'Opera delle Fiandre è che mi consente di fare piani a lungo termine e di lavorare con continuità con la stessa orchestra sia nel repertorio sinfonico che in quello operistico. L’orchestra vanta già un ottimo livello ma ogni direttore musicale ha sempre l’ambizione di migliorare o di portare ancora più in alto il livello della propria orchestra. Non si tratta solo una questione di titoli da dirigere, quindi, ma più in generale di lavorare per un obiettivo di qualità. È la funzione di un direttore musicale, credo». 

In un’intervista di qualche tempo fa lei ha dichiarato che la sfida principale del fare opera o, più in generale delle arti performative classiche, è quella di stabilire una relazione, un ponte con le nuove generazioni. Lo pensa ancora? 

«Credo resti una questione fondamentale. Si può fare sempre qualcosa di più e di migliore. Non abbiamo il diritto di essere troppo facilmente soddisfatti».

«Bisogna combattere l’idea dell’opera come arte museale, come arte severa. Farlo è il dovere di noi musicisti». 

«Credo sia essenziale parlare di quello che facciamo alle nuove generazioni, ai giovani. Spesso dopo aver assistito al loro primo spettacolo d’opera molti giovani reagiscono come davanti a una scoperta: "Non immaginavo che l’opera fosse così". Bisogna combattere l’idea dell’opera come arte museale, come arte severa. Farlo è il dovere di noi musicisti. 

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