Vicenza: L’incoronazione di Poppea ovvero quella Roma antica che parla la lingua di oggi

Al Teatro Olimpico di Vicenza la Iván Fischer Opera Company porta una riuscita produzione dell'opera di Monteverdi

L’incoronazione di Poppea (Foto Virginio Levrio)
L’incoronazione di Poppea (Foto Virginio Levrio)
Recensione
classica
Vicenza, Teatro Olimpico
L’incoronazione di Poppea
30 Ottobre 2021 - 01 Novembre 2021

 “Oggi in un sol certame, l'un e l'altra di voi da me abbattuta, dirà, che’l mondo a’ cenni miei si muta. Ad un cenno di Amore il ciel svanisce.” È quasi come un teorema matematico, il cui enunciato viene esposto già nel prologo, l’opera con la musica di Claudio Monteverdi (e verosimilmente con contributi di Francesco Sacrati e Benedetto Ferrari) e il libretto di Giovanni Francesco Busenello del 1643. L’amore vince su tutto, e soprattutto sulla fortuna e ancor di più sulla virtù, di cui tutti i personaggi sembrano essere in difetto. Quella dell’Incoronazione di Poppea è una Roma antica in cui l’intreccio fra sesso e potere è il motore di una storia condita di veleni e fake news, dove la verità viene messa a tacere con omicidi mascherati da suicidi. “La decadenza della società di oggi è come quella dell’antica Roma, un po’ pazza un po’ perversa, non razionale” dice Iván Fischer, direttore e per l’occasione regista del nuovo allestimento itinerante dell’Incoronazione di Popppea che, dopo Budapest, è approdata per tre affollate recite al Teatro Olimpico di Vicenza nell’ambito della quarta edizione del Vicenza Opera Festival.

Dalle suggestioni sulla contemporaneità di questa storia antica fatta di personaggi del tutto privi di senso morale nasce l’allestimento curato dallo stesso Iván Fischer con Marco Gandini. Si tratta di un allestimento leggero e adattabile a spazi diversi come il Müpa di Budapest e il Grand Théâtre di Ginevra, che l’hanno accolto prima della tappa di Vicenza, nella splendida cornice del Teatro Olimpico, utilizzato solo nel proscenio. Quella disegnata dallo scenografo Andrea Tocchio è una semplice pedana con diversi accessi e vari anfratti, che, non solo suggeriscono i diversi ambienti attraverso i quali si sviluppa la vicenda con semplici elementi di attrezzeria (uno specchio/porta, un divano con cuscini in lamé dorato per l’alcova degli amanti, i due troni imperiali che diventano barche), ma integrano anche i due cembali e l’organo del basso continuo, attraverso un dispositivo agile non dissimile da quello adottato da John Eliot Gardiner per il progetto Monteverdi 450. Strizzano l’occhio al contemporaneo anche l’eteroclito guardaroba scelto dalla costumista Anna Biagiotti per il variegato cast, spesso con un gusto parodistico. È così per Amore, bambino sfrontatissimo e dai modi assai poco divini, che imperversa per gran parte dello spettacolo, per la reinvenzione della toga imperiale di Nerone, ma anche del filosofo Seneca e dei famigli. Se invece è più severa Ottavia, l’irresistibile e consapevolissima ascesa di Poppea, da entraineuse di lusso al soglio imperiale, si nota anche nella mutazione nei capi indossati dai body e vistosi tubini di paillettes alle più castigate tuniche e al sontuoso abito dorato per l’incoronazione, che denunciano comunque un certo gusto da “parvenu”.

Produzione agile e spigliata, dunque, che integra efficacemente con l’azione scenica il mobilissimo drappello delle violiniste e i fiati della Budapest Festival Orchestra, utilizzati quasi come uno stralunato coro greco quando escono parodiando l’andatura di una vecchia dopo il monologo sulla femminilità della Nutrice o entrano in scena marciando a passo d’oca in risposta alla chiamata ai sudditi di Nerone per rendere omaggio alla nuova imperatrice.

Molto aderenti al disegno scenico tutti gli interpreti a cominciare dalla seducente Poppea di Jeanine De Bique, non soltanto per la disinvoltura con la quale si muove in scena ma anche per la bellezza del timbro vocale. Più convincente sul piano scenico che su quello vocale, invece, il Nerone di Valer Sabadus, efficace comunque nel ritratto dell’uomo incline ai propri capricci sessuali più che del tiranno capriccioso e sinistro. Luciana Mancini disegna una Ottavia imperatrice disprezzata nobile negli accenti ma non meno spregiudicata della Poppea che segna la sua rovina. Se la regia costringe il suo Seneca qualcosa che somiglia alla parodia di un filoso, Gianluca Buratto recupera autorità sul piano musicale grazie all’autorevolezza stilistica e alla pienezza del timbro di basso. Altrettanto efficaci l’Ottone di Reginald Mobley, che sconta un certo impaccio sulla scena, e soprattutto la Drusilla di Núria Rial resa con tratti di toccante sensibilità. Irresistibile nel doppio ruolo di Arnalta e Nutrice Stuart Patterson evita la parodia corriva, regalando al contrario ai personaggi accenti di umanità. Nei ruoli minori, Silvia Frigato è una Venere quasi bambina in abito di Playboy bunny e il giovanissimo Jakob Geppert è Amore (e Valletto) di sorprendente disinvoltura scenica, che gli fa perdonare la comprensibile (e inevitabile) gracilità di emissione. Completano il cast con onore i famigli, i tribuni e i littori impersonati dal baritono Peter Harvey e dai tenori Francisco Fernández-Rueda e Thomas Walker, quest’ultimo protagonista, come Lucano, di una sensuale scena a due con l’imperatore Nerone sul cadavere ancora caldo di Seneca.

Se più di una obiezione è lecita su alcune scelte piuttosto disinvolte nonostante la dichiarazione di esecuzione storicamente informata, sul piano musicale va riconosciuto all’Iván Fischer direttore di essere riuscito comunque a costruire uno spettacolo godibile dal passo fluido e efficace sul piano teatrale. Un risultato che il folto pubblico presente a tutte le tre recite del Teatro Olimpico ha festeggiato con calorosissimi applausi.

 

 

 

 

 

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