Viaggi italiani nelle radici musicali europee

Grandi successi per le tournée europee dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia e della Filarmonica della Scala

Janine Jansen e Antonio Pappano con l'Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia
Janine Jansen e Antonio Pappano con l'Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia (Foto di Susanne Diesner)
Recensione
classica
Stoccarda / Essen
Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia / Filarmonica della Scala

Se c’è più di un motivo per nutrire dubbi che l’Italia sia ancora il paese della cultura come molto spesso viene ancora considerata, occorre riconoscere che talvolta si deve davvero essere orgogliosi di quel che ancora il nostro paese riesce a esprimere in campo culturale. E questo nonostante un sostegno dalla politica spesso distratto e quasi sempre deficitario.

Un sicuro motivo di orgoglio è la concomitante tournée europea di due fiori all’occhiello della musica sinfonica italiana: l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia e la Filarmonica della Scala. Evitando consueti (e triti) cliché dell’italianità da esportazione, entrambe le orchestre portano nel cuore dell’Europa il loro tributo al grande festeggiato del 2020 con programmi di taglio molto classico, com’è d’uso nelle grandi compagini orchestrali, della cui famiglia fanno parte a buon titolo.

Entrambe le orchestre hanno letteralmente fatto il pieno di pubblico nelle diverse tappe delle due brevi tournée che, nel caso dell’orchestra romana, ha toccato le piazze di Düsseldorf, Monaco di Baviera, Stoccarda, Amburgo e Francoforte sul Meno, mentre per l’orchestra milanese, oltre Colonia ed Essen, ha toccato Anversa e Lussemburgo per concludersi con due serate alla Philharmonie di Parigi. 

Sale gremite ovunque, dunque, compresa quella della Beethoven Saal nella Liederhalle di Stoccarda per il festeggiatissimo concerto dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia guidata dal proprio direttore musicale Antonio Pappano nello stesso programma proposto all’Auditorium Parco della Musica a Roma qualche giorno fa, privato ovviamente del preludio pedagogico. Apertura con una autentica rarità anche in terra tedesca in ossequio all’anno beethoveniano: l’Ouverture del König Stephan op. 117. Musica d’occasione spesso criticata per il carattere prolisso e la vena non particolarmente inventiva, in realtà era un’ottima occasione, soprattutto nel Presto della seconda sezione, per sfoggiare l’agilità tecnica e il suono brillante forgiato da Pappano nei suoi lunghi anni alla testa dell’orchestra.

Seguiva il celebre Concerto per violino in mi minore op. 64 di Felix Mendelssohn Bartholdy con il violino solista di Janine Jansen, virtuosa dall’animo gentile ma di carattere, capace di un dialogo appassionante con l’orchestra. Tecnicamente ineccepibile e autorevole, specialmente nel brillante Allegro molto vivace conclusivo, il violino della Jansen, dal suono non prepotente, ci è sembrato più autentico nelle pagine più introspettive dell’Andante del secondo movimento sostenuta da un suono orchestrale di levigata precisione. La rigorosa pulizia dei rapinosi passaggi tecnici e lo scambio serrato con le varie sezioni orchestrali strappavano l’applauso caloroso del pubblico ricambiato dalla violinista olandese con un bis bachiano. 

Seconda parte interamente dedicata alla Sinfonia n. 1 in si bemolle maggiore di Robert Schumann, la sinfonia “della primavera” scelta felicemente per dare conforto agli spettatori in giorni di temperature piuttosto rigide. Anche in questo pezzo Pappano sollecitava a fondo la luminosa plasticità del suono dell’orchestra per una lettura vitale e solare, piuttosto insolita in un compositore ombroso come Schumann, offuscata appena da qualche ombra nel Larghetto del secondo movimento. Di piglio impetuoso e imperioso, quasi beethoveniano, l’Allegro animato e grazioso del quarto movimento, opportunamente intonato a quanto il compositore auspicava: «penso ad esso come a un addio alla primavera, dunque non vorrei fosse eseguito in modo eccessivamente leggero».

Comunque, finale trascinante che guadagnava all’ottima prova dell’orchestra applausi e chiamate. Anche in questo caso l’orchestra e l’estroverso direttore ringraziavano con un doppio bis: una melanconicamente sognante “Italiana” dalla Terza suite delle Antiche danze ed arie per liuto di Respighi e una freneticamente vitale Ouverture da Le nozze di Figaro di Mozart. 

La Filarmonica della Scala a Essen (foto di Massimiliano Tisserant)
La Filarmonica della Scala a Essen (foto di Massimiliano Tisserant)

Interamente beethoveniano il programma proposto dalla Filarmonica della Scala diretta anche dal proprio direttore musicale Riccardo Chailly nel concerto del bellissimo auditorium della Phiharmonie di Essen, per l’occasione gremito di spettatori. Anche in questo caso il programma era lo stesso del recente concerto “di rodaggio” scaligero e si apriva con una intensa esecuzione dell’Ouverture dell’Egmont nella quale Chailly lasciava trasparire un certo trascinante impeto di gusto melodrammatico nell’Allegro della seconda parte. Fortemente innestata nella tradizione germanica è sembrata la lettura delle due Sinfonie, l’Ottava e la Quinta eseguita nella seconda parte, soprattutto per la densità fonica e il colore brunito che l’orchestra ha sviluppato sotto la guida del direttore milanese, a lungo collaboratore di complessi quali l’Orchestra del Gewandhaus di Lipsia e l’Orchestra del Concertgebouw. Quella tradizione sembra infusa nel suono dell’orchestra milanese che si dispiegava pienamente nei movimenti estremi dell’Ottava, laddove nell’Allegretto scherzando si respirava piuttosto una mendelssohniana leggerezza e nel Tempo di minuetto si apprezzava soprattutto il prezioso ricamo dei legni.

Anche più appassionante nel suo forte legame con la grande tradizione sinfonica tedesca la lettura della Quinta, costruita con una tensione che cresce progressivamente fino a sciogliersi nello sfolgorante slancio idealistico del finale, di spirito intimamente beethoveniano. Tensione emotiva palpabile in sala che si scioglieva alla fine della tesissima esecuzione in una entusiastica standing ovation. Inevitabile anche in questo caso il bis, intonato al rigoroso programma beethoveniano della serata ma con una sottile traccia di italianità: l’Ouverture dalle Creature di Prometeo, frutto della collaborazione destinata a restare unica con il coreografo napoletano Salvatore Viganò. 

Se l’anima europea è anche e forse soprattutto nella sua musica, si può ben sperare che proprio da lì parta una riscossa. La buona notizia è che l’Italia c’è. 

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