Turandot nel terzo millennio
A Palermo Puccini con la regia di Fabio Cherstich e i video del collettivo russo AES+F
La drammaturgia della Turandot di Puccini, con la sua azione spesso sospesa o congelata, può certo costituire un problema per la regia di turno: Fabio Cherstich ha di fatto aggirato il problema, realizzando sostanzialmente un quasi-oratorio, in cui masse e gruppi di personaggi sono bloccati in disposizioni statiche, ancorché assai colorate, allusive ora all’immagine televisiva del consenso collettivo, ora a un futuro fantasy da Star Wars. I segni costumistici individuanti alcuni personaggi (Calaf, un fuggiasco-combattente; Liù un’infermiera simbolo di dedizione; Timur, un re-generale molto somigliante allo Scià) non sono il presupposto per un vero stacco dinamico-espressivo della loro azione, poiché l’attenzione rimane fatalmente catturata dal contesto visuale creato dalle proiezioni su 3 o 4 schermi, con risultati discutibili: il collettivo russo AES+F immagina una Turandot nel terzo millennio, in una metropoli totalmente globalizzata, tecnologizzata, ancor più avveniristica – nelle forme architettoniche bio/zoomorfe – di quanto lo siano le odierne metropoli cinesi. Sembra una Metropolis enne.0, in cui il controllo assume forme cibernetiche avvolgenti quanto inquietanti, e la repressione – indiscriminatamente interrazziale – una soavità atarassica perfino nelle vittime, prima dell’esplosione conclusiva in commistioni di forme tra il bizzarro e il kitsch. Nulla da dire, anche per la coerenza col cromatismo smaltato e sfrontato di scene e costumi, se non fosse che queste onnipresenti proiezioni ripropongono a loop gli stessi elementi per durate estenuanti, lasciandoli galleggiare sulle superfici come in un vetusto salvaschermo da computer, e generando alla lunga saturazione e stanchezza.
L’esecuzione musicale è stata complessivamente buona, a parte qualche perdita di compattezza nel primo atto: in luce, più che la vocalmente poderosa Turandot di Tatiana Melnychenko, l’asciutto ed elegante Calaf di Brian Jagde, che non ha mai gigioneggiato, regalando un ‘Nessun dorma’ perfettamente inserito nella traiettoria drammatica di quel momento, o la Liù di Valeria Sepe, forse un po’ inventiva nella fonesi delle parole, ma protesa nel fraseggio e ben sbalzata nelle diverse fasi espressive. Complessivamente bene anche gli altri. Gabriele Ferro ha diretto Orchestra e i Cori del Teatro Massimo, al cospetto di una sala gremita e alla fine plaudente.
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