L’orrore del femminicidio per l’apertura lirica a Palermo

Nel dittico-serata a tema, regia di Silvia Paoli, si segnala il raro e giovanile Aleko di Rachmaninov

AM

26 novembre 2025 • 3 minuti di lettura

Aleko ( Foto Rosellina Garbo)
Aleko ( Foto Rosellina Garbo)

Teatro Massimo di Palermo

Aleko, Pagliacci

21/11/2025 - 27/11/2025

Il Teatro Massimo di Palermo apre la stagione con un dittico scelto a tema, attualissimo e scottante: il femminicidio. Assai interessante la scelta di accoppiare, al ben noto Pagliacci, il primo lavoro scenico di Rachmaninov, Aleko, un atto unico desunto da un poemetto di Puškin composto esattamente nello stesso anno – 1892 – del capolavoro di Leoncavallo: il ruolo eponimo è un intellettuale perseguito che ha abbandonato il mondo borghese unendosi a una comunità di nomadi; vi conosce e ama Zemfira, figlia del capo-comunità e di una zingara che l’abbandonò poco dopo la nascita: il destino d’irriducibile libertà sentimentale della donna riemerge alla comparsa di un giovane zingaro, e scatena la gelosia omicida di Aleko. La regia di Silvia Paoli mette in chiaro il tema sin dal preludio a sipario chiuso in Rachmaninov, materializzandolo sulla scena in un’azione di raccapricciante mattanza e in un doppio attoriale della vittima in entrambi i titoli, vestita di un abito che distorce i fiori della protagonista cantante in orrorifiche macchie di sangue. Il fil-rouge registico chiude il cerchio nell’Intermezzo di Pagliacci, con la dolente vestizione di Nedda e l’agghiacciante apparire sullo sfondo dei nomi delle vittime di femminicidio, ma centra le soluzioni più incisive nell’afflitta deposizione di un fiore da parte di rappresentanti delle maestranze sul corpo di Zemfira, e sulla proiezione d’uno straniante quanto sinistro intervento di un giovane intervistato in spiaggia da Pasolini per i Comizi d’amore del 1964, quale ponte verso il teatro-nel-teatro e l’ambientazione balneare di Pagliacci.

Il lato unitario dello spettacolo, quindi, regge dopotutto bene, anche grazie alla partecipazione – di notevole valore interpretativo – di due stessi interpreti ai due titoli della serata: Carolina López Moreno è vocalmente duttile e perfettamente calata nelle parti sul versante attoriale; Elchin Azizov è un Aleko inappuntabile, di timbro caldo e suadente e di fraseggio plastico, e riesce a trasformarsi efficacemente nello ‘pseudo-Jago’ del Tonio. Meno convincenti altre declinazioni sceniche, quanto a possibile differente caratterizzazione dei titoli: l’ambiente nomadico dell’Aleko scivola tutto nei segni borghesi del nostro oggi, rendendo poco leggibile la scelta del vecchio capo zingaro di allontanare l’assassino dalla comunità, quale unica ed etica punizione del delitto; anche per il coro – musicalmente un po’ in affanno nella sincronizzazione iniziale in Rachmaninov – non si guarda a tale aspetto, vestendolo di un nero funereo per entrambe le tragiche risoluzioni.

Nel resto del cast, spiccano le convincenti prove dei due tenori-amanti (più squillante e luminoso Pavel Kolgatin, più chiaroscurale Gustavo Castillo) così come del Matteo Mezzaro ottimo sia nelle fasi meta-teatrali sia in quelle più drammatiche; si è onorevolmente disimpegnato, con la sua esperienza e solidità, Brian Jagde come Canio. Francesco Lanzillotta, asciutto nella direzione di Pagliacci, ha invece valorizzato le soffuse sonorità della partitura di Rachmaninov, in bilico tra il colore di Borodin e l’eleganza di Čajkovskij, non senza qualche reminescenza armonica di Grieg: non male per un compositore neppure ventenne qui alla prova di diploma, ma forse non ancora maturo per drammaturgie musicali più articolate (sarebbe peraltro meritorio riproporre in Italia anche i pochi titoli scenici successivi del russo).