Se Farnace è un talebano

Il Teatro La Fenice prosegue il ciclo di opere di Antonio Vivaldi con Farnace con la direzione di Diego Fasolis e la regia di Christophe Gayral al Teatro Malibran

Farnace (Foto Michele Crosera)
Farnace (Foto Michele Crosera)
Recensione
classica
Venezia, Teatro Malibran
Farnace
02 Luglio 2021 - 10 Luglio 2021

Orlando furioso, Dorilla in Tempe, Ottone in Villa e ora Farnace: si allunga di un titolo pesante il ciclo vivaldiano intrapreso da qualche stagione dal Teatro La Fenice, affidandolo ancora alla competente cura musicale di Diego Fasolis. Composto da Antonio Vivaldi in un periodo molto fecondo, il Farnace va in scena al Teatro Sant’Angelo nel 1727 e gode subito di una popolarità che insolitamente (per l’epoca) produce numerose riprese in varie città italiane e qualche tappa europea. Che si tratti di un lavoro particolarmente curato lo dicono i numerosi rimaneggiamenti e continui aggiustamenti del compositore (per questo Fasolis la definisce “opera feticcio” di Vivaldi) in occasione delle varie riprese, per non dire del quasi rifacimento del 1739 per Ferrara con 16 nuove arie e sostanziali revisioni delle altre 8. Lo dicono soprattutto, autoimprestiti a parte, le numerose gemme della partitura, come la giustamente celebre aria di Farnace “Gelido in ogni vena” del secondo atto, le toccanti arie riservate a Tamiri “Dividete, o giusti dei” del secondo atto e “Forse, o caro, in questi accenti” del terzo, l’atmosferica “Sorge l’irato nembo” di Pompeo, ruolo secondario ma non certo per l’attenzione riservatagli da Vivaldi, e soprattutto l’originale quartetto “Io crudel?”, espressione di sentimenti fortemente contrastanti, poco prima dell’immancabile lieto fine.

Dietro al successo c’è sicuramente un soggetto collaudato con protagonista Farnace II, re del Ponto e figlio di quel Mitridate anche soggetto prediletto di numerose opere, ripetutamente sconfitto da Cesare all’epoca della guerra contro Pompeo (per gli amanti dell’aneddoto, il celebre “veni, vidi, vici” di Cesare era riferito a quella battaglia). Antonio Caldara e Leonardo Vinci precedettero Vivaldi con le loro opere dando forma musicale al cupo soggetto quasi shakesperiano di lotte dinastiche attorno al re sconfitto e alla consorte Tamiri perseguitati dalla truce regina Berenice di Cappadocia, madre di Tamiri, e dagli occupanti romani guidati da Pompeo. A complicare il quadro, nel libretto di Antonio Maria Lucchini si mette anche Selinda, sorella di Farnace e doppiogiochista erotica fra il romano Aquilio e il cappadociano Gilade per salvare la pelle al fratello.

Per questa nuova produzione che va in scena al Teatro Malibran a pochi giorni di distanza dal Faust della tumultuosa riapertura del teatro veneziano, il Diego Fasolis musicologo parte dall’autografo di Pavia del 1731 con Farnace assegnato a un tenore per approntare una versione ibrida con le altre voci come nella prima versione veneziana del 1727. Scelta purtroppo indebolita dalla presenza del tenore Christoph Strehl come protagonista, largamente inadeguato sia per mezzi vocali ormai compromessi che su quello dello stile, marcatamente abborracciato. Al suo fianco, Sonia Prina è una Tamiri che, una volta di più, fa sfoggio di grande disinvoltura sul piano scenico e di una padronanza stilistica che trasforma in ricchezza espressiva una fatica che qua e là affiora. Anche Lucia Cirillo incarna con spigliatezza e veemenza la furiosa e spietata Berenice, mentre Rosa Bovedi Selinda rende efficacemente con una punta di ironia il patetismo di facciata risolto con eleganza. Meno interessante il comparto maschile con l’unica eccezione del sopranista Kangmin Justin Kim che abborda con perizia belcantista “Scherza l’aura lusinghiera” del suo Gilade, mentre Valentino Buzza serve con onore il ruolo di Pompeo nonostante una certa estraneità allo stile vivaldiano e David Ferri Durà è un Aquilio vocalmente preciso ma piuttosto incolore. Completa il parterre vocale il Coro del Teatro La Fenice sistemato nei palchi di proscenio per i due brevi interventi nel primo atto. Insiste meno sulle dinamiche scattanti e sul virtuosismo strumentale il Diego Fasolisdirettore per questo Farnace che invece si fa apprezzare per i colori crepuscolari e il prezioso cesello strumentale della ricca partitura vivaldiana restituito dai bravi strumentisti dell’Orchestra del Teatro La Fenice.

Resta da dire del serioso allestimento di Christophe Gayral attualizzato a un Medioriente militarizzato – come dicono le rovine cementizie disegnate da Rudy Sabounghi e i costumi con tripudio di divise militari di Elena Cicorella – che attinge generosamente ai cliché di sapore didascalico di molte consuetudini teatrali contemporanee pur senza averne il distacco ironico. Farnace è un talebano marcatamente misogino e ossessionato dalla violenza che nel finale, rovesciando il lieto fine pacificatorio dell’originale (anche questo convenzionalmente contemporaneo), ordina una carneficina e trionfa con la sorella Selinda al fianco e il figlioletto armato ai piedi sullo sfondo di un’enorme bandiera verde con mezzaluna crescente. Quando l’affetto cede il passo all’effetto.

Sala discretamente affollata. Applausi.

 

 

 

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