Santa Cecilia, la protettrice della musica, va all’opera
Bella edizione dell’opera di Refice, assente da molti anni dai palcoscenici italiani
Da alcuni anni il Teatro Lirico di Cagliari si distingue per dedicare le sue inaugurazioni a rare opere italiane della fine del diciannovesimo secolo e dell’inizio del ventesimo e questa volta la scelta è caduta su Cecilia di Licinio Refice. Il nome di questo musicista non dirà nulla ai più ma a suo tempo fu un personaggio importante. Sacerdote, divenne direttore della Cappella Musicale Liberiana nella Basilica di Santa Maria Maggiore, un incarico allora prestigioso che ne fece insieme a Lorenzo Perosi la figura di riferimento per la musica sacra del tempo. Ma era un musicista a tutto tondo e si sentiva stretto nell’ambito esclusivamente liturgico, così progettò un trittico di “azioni sacre”, che in pratica erano vere e proprie opere, di cui la prima fu appunto Cecilia, dedicata alla santa protettrice della musica. Nel 1924 l’opera era finita ma ci vollero dieci anni per convincere le autorità ecclesiali a dare l’autorizzazione alla rappresentazione, cosicché la prima ebbe luogo soltanto nel 1934 a Roma. Fu un grande successo, a cui seguirono varie riprese, totalizzando più di cento repliche nei soli primi quattro anni. Refice morì nel 1954 a Rio de Janeiro proprio mentre stava dirigendo le prove della sua opera.
Dopo questa indispensabile premessa, veniamo al dunque. Cecilia è divisa in tre “episodi”: il primo è il matrimonio di Cecilia col pagano Valeriano; il secondo è una riunione dei cristiani nelle catacombe, durante la quale accadono degli eventi miracolosi che convincono Valeriano a convertirsi; il terzo è il martirio di Cecilia. Fece bene Refice a non definirli atti, perché in effetti sono quasi privi di azione e potrebbero essere paragonati ai pannelli di un polittico medioevale che rappresentino gli episodi fondamentali della vita di un santo. Ma certamente non è medioevale lo stile musicale di Refice, a iniziare dalla raffinata e lussureggiante orchestrazione, degna di essere accostata non soltanto a Respighi, che era l’esempio a lui più vicino, ma anche a Richard Strauss. Questa magistrale e raffinata orchestrazione cattura l’attenzione e sollecita l’ammirazione però non dà un reale contributo a rinvigorire e rendere più drammatico e interessante ciò che avviene sul palcoscenico ma è - se proprio vogliamo proseguire nel paragone coi trittici medioevali – come un fondo dorato su cui si stagliano i personaggi.
E questi personaggi non hanno né possono avere grande spessore drammatico. In particolare la protagonista, che ha lo sguardo sempre rivolto al cielo ed è completamente estranea ad ogni passione terrena. Tuttavia è una figura affascinante, che emana una luce dolce e serena e anche una forza interiore che ne fanno un personaggio “operistico” (le virgolette sono assolutamente necessarie in questo caso) più unico che raro. Sembra che alla prima assoluta quella grande cantante-attrice che fu Claudia Muzio ne abbia dato un’interpretazione letteralmente straordinaria, ma lo stesso non può dirsi del soprano austriaco Martina Serafin, sicuramente una cantante di pregio con un lungo e ragguardevole curriculum alle spalle, che – aiutata anche dai lineamenti regolari e dalla bionda capigliatura – ha espresso il candore liliale, la totale seraficità e la fede assoluta di Cecilia ma non è andata oltre.
Refice non era totalmente privo di senso del teatro e sapeva di dover contrappuntare con personaggi contrastanti questa protagonista perfetta, esente da ogni dubbio, tentennamento e – non sia mai! – tentazione. Provvedono alla bisogna il crudele prefectus urbis Amachio, che condanna Cecilia al supplizio, e Tiburzio, fratello di Valeriano, che non è un vero “cattivo” ma soltanto un uomo dai modi spicci. Entrambi hanno trovato in Roberto Frontali un interprete di lusso. Paradossalmente appare più vivace e “umano” di Cecilia perfino l’angelo nei suoi interventi dal cielo, uno per ogni episodio, pregevolmente cantati da Elena Schirru. Il vescovo Urbano ha una statuaria ieraticità di bell’effetto, cui contribuisce l’uso degli antichi modi ecclesiastici: gli ha dato voce autorevole Alessandro Spina.
Un caso a parte è Valeriano, che con Cecilia ha un lungo duetto d’amore, o piuttosto tenta un impossibile duetto d’amore, quando dopo le nozze cerca di venire al dunque; ma la santa lo respinge, promettendogli tanti baci puramente spirituali in un indeterminato futuro, al che lui, che inizialmente aveva rivestito la sua ardente sensualità di un linguaggio delicato e stilnovista, reagisce diventando più pressante ed esplicito. Ma la sensualità di questa scena è realizzata - o piuttosto distrutta - da Antonello Palombi con un canto sempre stentoreo.
I frequenti cori sono essenziali a caratterizzare e differenziare i vari episodi, ovviando così al rischio di monotonia. A titolo di curiosità ricordiamo che nel primo episodio si avvertono chiare somiglianze con i cori del primo atto della Turandot per l’uso della scala pentafonica ma anche per la citazione breve ma quasi letterale di “Muoia! Muoia!”: ma la Turandot non era stata ancora eseguita, quando Refice compose la sua opera.
Per concludere, ritorniamo all’orchestra, perché è indiscutibile che a colmare le lacune teatrali della Cecilia siano proprio la densità e lo splendore sinfonico dell’orchestrazione, che la direzione di Giuseppe Grazioli rende in modo impeccabile. Ottima la prova sia dell’orchestra che del coro (preparato da Giovanni Andreoli) del teatro cagliaritano.
Premesso che la Cecilia potrebbe essere vantaggiosamente eseguita in forma d’oratorio, non c’è molto da dire della sobria messa in scena ma va riconosciuto a Leo Muscato, Andrea Belli e Margherita Baldoni (che firmavano rispettivamente la sobria regia, la scena unica e i costumi in stile peplum) di aver fatto quel che era necessario e sufficiente.
Pubblico non foltissimo, come spesso capita in questi tempi di epidemia, ma generoso di applausi.
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