Nick Cave, Birthday Party per i cinquant'anni
Nick Cave e i suoi Bad Seeds sono in forma come non mai. A cinquant'anni compiuti, il cantante australiano smette i panni del cantautore e riscopre, ancora una volta, il fascino non discreto dell'elettricità.
03 giugno 2008 • 2 minuti di lettura

Milano
Che Nick Cave fosse anche uno strepitoso autore di ballad ce ne eravamo quasi dimenticati, dopo due ore di concerto: la data milanese del rocker australiano, la prima di quattro italiane per questo 2008, è un muro sonico ininterrotto, che estirpa programmaticamente dalla scaletta ogni concessione al “cantautorato” intimista grazie al quale tanto abbiamo amato Cave almeno nell’ultimo decennio. Siamo, insomma, dalle parti dei Birthday Party - o di Grinderman - e ben lontani da album come "No more shall we part" (del tutto trascurato) o "Murder Ballads" (recuperato solo nello standard “Stagger Lee”, ultimo bis). Però, forse per contrasto, le (sole) quattro concessioni “liriche” si fanno ricordare, eccome: oltre alla bella “Jesus of the moon”, tratta dall’ultimo disco e con Warren Ellis al flauto, “Nobody’s baby now”, “The ship song” e un’emozionante ”Into my arms”, in chiusura con Cave per la prima e unica volta (!) al pianoforte. La scaletta - comunque - non delude: molti classici (“The Mercy Seat” accoppiata a “Deanna”, “Red Right Hand”, “Tupelo”…), molti brani di "Dig!!! Lazarus, Dig!!!" - altrimenti non imperdibili - rinvigoriti dall’energia del live. I Bad Seeds, a dispetto della calvizie incipiente, rumoreggiano come dei ventenni. Con due batterie e basso (oltre alle tastiere discrete di Conway Savage e al pacato - rispetto ai compagni - Mick Harvey alla chitarra), la sola sezione ritmica produce da sola una buona metà dell’impatto sonoro. Al resto ci pensa Cave alla chitarra elettrica (!) e soprattutto il perverso - come altro definirlo? - Warren Ellis al violino, che raramente si ricorda dell’archetto e produce suoni in libertà, svincolati da ogni funzione melodica o ritmica.