Mahler e Pappano, un incontro ogni volta più avvincente e stimolante

A Santa Cecilia il direttore ha fatto il suo debutto nella settima sinfonia mahleriana

Pappano e l'Orchestra dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia (Foto Musacchio, Ianniello e Pasqualini)
Pappano e l'Orchestra dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia (Foto Musacchio, Ianniello e Pasqualini)
Recensione
classica
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia
Mahler Sinfonia n. 7, Pappano
15 Dicembre 2022 - 17 Dicembre 2022

Antonio Pappano è il Direttore Musicale dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia dal 2005 e lo sarà soltanto per pochi mesi ancora, dopo di che ne diventerà il Direttore Emerito. Per chi li abbia seguiti in tutti questi diciassette anni è evidente come l’orchestra sia cresciuta ed abbia enormemente aumentato la sua reputazione in campo internazionale, ma anche Sir Tony è molto maturato. Quand’è arrivato a Roma, era già un direttore affermato in campo operistico, mentre non aveva una grandissima esperienza nel campo della musica sinfonica, per esempio non aveva diretto tutte le sinfonie di Beethoven e lo si è avvertito, quando ne ha diretto a Roma il ciclo integrale per la prima volta; ma ora ha sviluppato un’interpretazione di Beethoven molto più approfondita, coerente, bilanciata e anche energica ed esaltante.

Più o meno lo stesso vale per Mahler: nei primi tempi del suo incarico a Santa Cecilia lo ha diretto spesso, ma scegliendo sempre e soltanto la prima sinfonia, che era diventata un suo cavallo di battaglia; poi ne ha dirette varie altre, soprattutto la sesta, di cui nel 2011 ha realizzato una bella incisione per una major discografica, facendo però ancora meglio in una sua recente esecuzione dal vivo, più scavata, dettagliata, inquietante. Ora, per il suo ultimo concerto romano del 2022, ha messo sul leggio la Sinfonia n. 7,  che non aveva mai diretto finora. E ha dimostrato di aver accumulato in questi anni un’esperienza mahleriana tale da permettergli di offrire una grande interpretazione anche al primo incontro con una composizione così complessa.

Questa è la più trascurata - ingiustamente - tra le sinfonie di Mahler. Normalmente la si contrapporne alla precedente, la “Tragica”: Mahler stesso ha scritto che ha un “carattere prevalentemente sereno”. Ha scritto anche che l’idea del tema inziale gli venne ascoltando i colpi di remo di una barca che lo trasportava d’estate sul laghetto alpino di Maiernigg, dove trascorreva le vacanze. Ma questo quadro di serenità abbozzato nelle sue lettere viene smentito dalla musica. Effettivamente all’inizio si riconosce il battito del remo – ma solo se si è messi sull’avviso da quella lettera di Mahler, citata nel bel programma di sala di Paolo Petazzi – ma non fanno certamente pensare al paesaggio idilliaco di un lago alpino, sembrerebbero piuttosto i remi della barca di Caronte, anzi peggio: non le bestemmie e i pianti dei dannati danteschi, ma un’atmosfera misteriosa, tremendamente cupa, lividi bagliori, qualche lontana fiammata, una terra desolata, nera, senza vita. Poi spuntano lacerti di temi appassionati, impennate d’entusiasmo, ritmi quasi di marcia, con squilli di trombe dapprima militari poi funebri. E all’improvviso più niente, solo mormorii lontani. Poi si ricomincia ma quel che prima si accumulava e quasi sia accavallava, ora è diradato, spettrale. Interviene un nuovo personaggio, un’arpa, che sembrerebbe zuccherosa ovunque, ma non in Mahler. Finché tromboni e timpani eliminano lo zucchero. E non siamo nemmeno alla metà del primo tempo. Pappano, che non è nato come direttore d’opera per caso, ma ha il teatro nel sangue, teatralizza questa musica e dispiega davanti ai nostri occhi, - pardon, orecchie – un dramma di cui né Mahler, né lui, né gli spettatori conoscono la trama. Eppure Pappano ha chiarissimo quale ruolo ogni strumento, ogni motivo, ogni nota, ogni pausa ha in questo dramma che non si può raccontare a parole. Un dramma ignoto, che coinvolge e avvince tutti.

Il secondo movimento è una Nachtmusik,  il cui tema principale è affidato al corno, come nel Notturno  del Sogno d’una notta di mezza estate  di Mendelssohn, però qui non ci sono gli elfi affascinanti e benevoli di Mendelssohn (e Tolkien) ma esseri che sentiamo sfilare all’inizio al suono di una marcetta sgraziata, goffi, inafferrabili, inquietanti, forse malevoli: Pappano li vede così, e siamo d’accordo con lui. È comunque una notte favolosa, il cui magico incanto sonoro è interrotto però dal suono molto concreto dei campanacci delle mucche, che a noi cittadini del ventunesimo secolo sembrano così bucolici, ma che - non dimentichiamolo - implicano una zaffata molto concreta di odore. Mahler scrive che devono risuonare “in grande lontananza”: Abbado, pudicamente, non li faceva quasi sentire, per non interrompere questa pagina metafisica, ma Pappano li fa sentire chiari e forti, e non sapremmo dargli torto.

Segue lo Scherzo,  che Mahler definisce Schattenhart  (Spettrale): un aggettivo che spiega tutto e che Pappano fa emergere in ogni frase. Ogni battuta di questo movimento è una meraviglia, ma dobbiamo procedere rapidamente e passare alla seconda Nachtmusik,  diversissima dalla prima: inizia con lo “slancio luminoso” (Adorno) del violino solo, poi i fiati fanno sentire l’eco di melodie lontane dal sapore campagnolo. Presto chitarra e mandolino accennano una serenata, la cui delicata melodia è resa dolcissima e appassionata dagli archi che la avvolgono: sentiamo il tepore e i profumi della notte di un paese del sud. Dopo quattro movimenti meravigliosi, il quinto è piuttosto deludente: è un finale vitalisticamente affermativo – oppure vuole ironicamente dimostrare l’impossibilità di un lieto fine? – su cui grava la feroce critica di Adorno: “… tutta la pompa di cui è pieno…”. Sono parole che pesano. E se ancora pesano, nonostante Adorno non sia più indiscutibile come un tempo, significa che contengono qualcosa di vero.

Ogni movimento richiederebbe pagine e pagine, ma queste rapide impressioni suggeriteci dall’interpretazione di Pappano possono forse dare l’idea di quanto analitica fosse la sua direzione. Non analitica nel senso matematico o scientifico, come si usava parlando delle interpretazioni di Pierre Boulez, che – dio ci perdoni – riuscivano quasi a rendere fredda la ribollente musica di Mahler. Pappano è analitico perché coglie ogni minimo dettaglio e lo mette nella giusta luce, non pretendendo di selezionare in quell’intrico, ma comprendendo che in questo rapido susseguirsi, annodarsi, aggrovigliarsi sta l’essenza di Mahler e che questa musica racconta sempre un dramma: un dramma senza parole, senza personaggi, senza svolgimento teatrale, ma un dramma profondamente umano, che ci coinvolge tutti, come ha coinvolto il pubblico del Parco della Musica, che alla fine di questa sinfonia, lunga e tutt’altro che facile da seguire, ha tributato a Pappano un’ovazione caldissima e lunghissima, giustamente condivisa dal direttore con tutta l’orchestra. 

 

 

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