Les Troyens all’Opéra Bastille trent’anni dopo 

Contrastata prima della monumentale opera di Berlioz con molti fischi al regista Dmitri Tcherniakov

Les Troyens (Foto Vincent Pontet)
Les Troyens (Foto Vincent Pontet)
Recensione
classica
Opéra national de Paris 
Les Troyens
25 Gennaio 2019 - 12 Febbraio 2019

 Per la stagione del tricentenario dell’Opéra, inevitabile l’omaggio a Hector Berlioz e al suo kolossal Les Troyens, nonostante questo lavoro non appartenga davvero al DNA artistico del teatro parigino. Anzi, all’Opéra la saga “peplum” di Berlioz ci arrivò solo nel 1921, ossia 63 anni dopo il completamento della partitura, ma soprattutto dopo il battesimo scenico (privo però della prima parte) al Théâtre Lyrique nel 1863 e la prima integrale postuma al Teatro Granducale di Karlsruhe in lingua tedesca nel 1890. Ma proprio Les Troyens fu scelto trent’anni fa per inaugurare la colossale Opéra Bastille in occasione del bicentenario della rivoluzione francese, iniziata proprio nella piazza sulla quale si affaccia il nuovo edificio. Per l’occasione si è rispolverato il sipario creato trent’anni fa da Cy Twombly, ma se allora si optò per il monumentale allestimento di Pier Luigi Pizzi, per questo ritorno si è pensato a Dmitri Tcherniakov nella doppia veste di regista e scenografo (mentre i costumi sono di Elena Zaytseva), che aggiorna la saga virgiliana ai codici della contemporaneità secondo la sua cifra. 

Nettamente contrastanti le chiavi scelte dal regista russo per le due parti del lavoro. Per la prima, “La prise de Troie”, il vasto palcoscenico esibisce con una certa grandiosità le ferite della capitale in macerie di una qualche satrapia mediorientale, nella quale si consumano i riti familisti del potere. Nella fugacissima parentesi di un’illusoria vittoria, c’è giusto il tempo di una foto di famiglia della coppia reale con congiunti e gran sfoggio di divise militari prima del subdolo attacco del nemico (inutile dire che del celebre cavallo non c’è alcuna traccia). In cerca di un’originalità che non è data né dalla cronaca in tempo reale della striscia in stile canale televisivo all news e tantomeno dalla consueta estetica sovietizzante anni ’70, Tcherniakov inventa un presunto complotto di famiglia con l’eroe Enea che sigla un patto col nemico greco (per punire Priamo che gli preferisce il figlio di Ettore al suo?) e la livorosa Cassandra, che, più che profetessa di sventura, rovescia il suo risentimento verso un padre colpevole di effusioni poco paterne a lei bambina. Le coreografie stile villaggio vacanze là per là sorprendono per lo stridente contrasto con la tragicità della distruzione di Troia ma poi si capisce che danno la chiave per la seconda parte: “Les Troyens à Carthage” è da intendersi come il dopo la guerra in una clinica per il recupero psicofisico dei reduci. Cartagine ha l’allegria forzata che può avere un ospedale con tanto di spiaggia esotica in carta da parata “trompe l’oeil” e viavai di protesi e di anime perse. Fra queste anche quelle della regina della festa Didone e del traumatizzato Enea tormentato dalle voci (“Italie! Italie!”). Come già nella sua Carmen vista a Aix-en-Provence, Tcherniakov rifà lo stesso giochetto e mette in scena il lavoro come gioco di ruolo in una psicoterapia di gruppo. Ma il risultato è fallimentare: le voci spingono Enea a lasciare la clinica e Didone si ammazza con gli psicofarmaci. Non è davvero chiaro se l’intenzione fosse quella di dissacrare il mito o piuttosto di tentare una lettura originale. Quel che conta è che Tcherniakov sembra davvero aver fallito l’obiettivo, fra insensatezze gratuite e trovate fin troppo abusate, come impietosamente testimonia la violenta salva di fischi ai saluti finali da ogni settore del teatro al suo indirizzo. 

Fortunatamente sul piano musicale le cose funzionano altrimenti, grazie specialmente a un cast vocale davvero sontuoso che regala camei di lusso, come Véronique Gens nei panni di Ecuba e Paata Burchuladze in quelli di Priamo in ruoli praticamente muti o quasi. Fra chi canta, si impongono le due protagoniste femminili, festeggiatissime dal pubblico con molte ovazioni e chiamate: Stéphanie d’Oustrac è un’intensa Cassandra capace di infondere la necessaria tragicità al personaggio, e Ekaterina Semenchuk è una Didone a tutto tondo malgrado il doppio livello imposto dalla regia. Se l’Enea di Brandon Jovanovich soffre di una certa monotonia interpretativa e di mezzi vocali spinti spesso al limite delle possibilità, di altissimo livello invece sono il Chorèbe che è tratteggiato con tutta la classe dell’eccellente interprete da Stéphane Degout e lo Iopas di Cyrille Dubois, che si conferma uno dei migliori tenori lirici dell’ultima generazione. Dal resto della lunga locandina, andranno citate almeno la freschezza dell’Ascanio di Michèle Loisier e la compassionevole Anna di Aude Extrémo. Un po’ disuguale la direzione di Philippe Jordan, piuttosto avara di colori e di tensione drammatica nella prima parte, decisamente più ispirata nella seconda, che fra finalmente brillare con i vividi colori strumentali dell’ottima Orchestra dell’Opéra. Notevolissima anche la prova del possente Coro dell’Opéra preparato da José Luis Basso

Dei fischi a Tcherniakov si è detto, largamente compensati dai generosi applausi agli artefici musicali della produzione. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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