Le inquietudini del Novecento
Al Massimo di Palermo Schönberg e Bartók
La nuova produzione in scena al Massimo di Palermo annunciava un già ghiotto dittico, La mano felice (titolo rarissimo in Italia) – Il castello del Principe Barbablù: si è aggiunto un terzo titolo, la Begleitmusik zu einer Lichtspielszene ancora di Schönberg, servito alla coppia Ricci/Forte da prologo a scena aperta per iniziare a introdurre segni scenici e temi, profusi senza tema d’eccesso nei due atti unici seguenti. Tra i due filoni dell’allestimento (il cortocircuito identità-alterità nell’uomo oggi, e la spettacolarizzazione dell’interiore più profondo e quasi intangibile), il prologo tocca soprattutto il primo, anche se il secondo si annuncia cripticamente nella piccola bara bianca lasciata a vista in proscenio di lato dal performer; questi si trasforma a vista da dignitario sumero a Venere di Willendorf, e via via fino a moderna infermiera (incarnazione della tecnocrazia inconsapevole?), sincronizzando lo sconfinamento dalla sfera dell’alterità proprio col climax catastrofico della ‘narrativa astratta’ congeniata nel bel pezzo di Schönberg. Ma alla regia le ‘voci del mondo’ – siamo già in Die glückliche Hand– con il segno-costume finale del prologo, la scena da luna-park (le montagne russe rossastre servono sia da articolazione scenica, sia da macchina-mostro abitata da personificazioni inquiete, prima che il mostro ritorni a ghermire l‘Uomo sotto forma di gigantesca testa di pagliaccio) corroborata dalla Donna-fatale e dal Signore-mago, e ampiamente approfondita negli elementi scenici del terzo lavoro in serata, sembrano non esser sufficienti, o meglio non sufficientemente espliciti. Peccato, perché al netto di un certo qual sovraccarico di quegli elementi, di una conseguente sensazione qua e là di horror vacui, e di un forzare – comunque stimolante – le due drammaturgie entro un’unica matrice significativa (col risultato di rendere accidentata la corrispondenza tra i due protagonisti maschili, Uomo e Barbablù – salvo che il secondo sia una variante pragmatica del primo – mentre in teoria funzionerebbe meglio tra Uomo e Judit), lo spettacolo ha mostrato notevoli doti di pulizia e di precisione nella presentazione dei segni scenici e nel disegno degli spazi, nonché di indiscutibile fascino audiovisivo in alcune azioni (ad es. quella del lago di lacrime in Bartók) magari non nuove, ma efficaci. Insomma, cercando di avvalorare l’organicità dell’arco problematico con l’assenza di soluzione di continuità tra i lavori, ma necessitando di una decina di minuti per il cambio-scena centrale, la regia ci propina una lunga, didascalica, indigeribile, pleonastica ‘lectio magistralis’, buona solo a (ri)presentare un paio di elementi, a far rimpiangere l’intervallo, e a mettere a serio rischio la tenuta dello spettacolo.
Musicalmente, assai buono il livello complessivo, se non ottimo quello delle voci: non si dimentichi che Gabor Bretz canta sia l’Uomo in La mano felice, sia Barbablù, ma pure Atala Schöck (Judit) fa molto bene; di qualità la prova dell’Orchestra del Teatro Massimo, che – guidata da Gregory Vajda – tira fuori soprattutto uno dal suono plastico, catturante, perfino seducente. Positivo anche il piccolo Coro nell’impegnativa partecipazione in Schönberg. Pubblico non numerosissimo, ma neppure esiguo, e alla fine sostanzialmente plaudente.
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