Le gemme nascoste di Wexford

All’Opera Festival 2016 “Herculanum” di David, “Vanessa” di Barber e “Maria de Rudenz” di Donizetti

Recensione
classica
Non ha musei di grande richiamo, non ha più un porto e non si vede quasi il mare, non ha le bellezze naturali del Connemara, eppure dal 1951 Wexford, località di poco più di 20 mila abitanti sulla costa sudorientale irlandese, a un paio d’ore dalla capitale Dublino, fra la fine di ottobre e l’inizio di novembre richiama una sparuta pattuglia internazionale di melomani per lo più da paesi anglofoni.

Il tempo non è mai clemente in quelle regioni. Il vento freddo e la nebbia già annunciano l’inverno incipiente, ma ti riscalda il calore del piccolo esercito di attempati volontari, per lo più cordialissimi pensionati, che ti accoglie oltre l’ingresso della National Opera House e che si muovono sorridenti fra eleganti smoking e qualche kilt e le elaborate toilettes delle signore nel foyer. È come entrare in casa di qualcuno quando si attraversa il semplice ingresso nella facciata – un prospetto di finte abitazioni, come si vedono nelle strette stradine di Wexford – nella High Street attraversata da qualche filo di lampadine bianche che fanno un po’ festa popolare. Non è però popolare il programma del Wexford Festival Opera, che nei suoi 65 anni di vita ha sempre privilegiato titoli piuttosto desueti che denunciano un’antica anima italiana ma anche un occhio di riguardo alla Britannia e una certa considerazione per la Francia. E ovviamente non manca un tocco di nazionalismo locale, intonato alla circostanza: prima di ogni recita serale, l’orchestra esegue la musica di Patrick Heeney per l’inno nazionale mentre il pubblico in piedi canta i versi in irlandese di “Amhrán na bfFiann”, il canto dei soldati di Peadar Kearney.

La linea decisa dal fondatore Tom Walsh è rimasta più o meno immutata anche sotto l’attuale direttore artistico David Agler, in carica da undici edizioni e inventore della formula che prevede tre produzioni operistiche nella scena della bella sala lignea da 770 posti, aperta nel 2008 al posto del vetusto Theatre Royal, e tre “shortworks” nella sala congressi del Clayton Whites Hotel. Più recital vocali nella Chiesa di St. Iberius, concerti e conferenze. Fra le tre produzioni principali dell’edizione 2016, la palma dell’originalità andava sicuramente a “Herculanum”, grand opéra composto per la scena parigina da Félicien David nel 1859 e ripescato da un oblio secolare grazie all’opera di scavo del Palazzetto Bru Zane, che alla produzione cameristica del compositore francese ha dedicato un festival nella sua sede veneziana un paio di stagioni fa. Se quest’opera di David era già stata presentata in concerto a Bruxelles e Versailles nel 2015 con la direzione di Hervé Niquet (anche disponibile in CD), a Wexford spettava l’onore della prima versione scenica in tempi moderni con la possibilità per lo spettatore contemporaneo di apprezzare pienamente il lavoro teatrale più ambizioso del compositore. Vera e propria opera “peplum”, ambientata a Ercolano nel 79 d.C. nel giorno dell’eruzione del Vesuvio. La coppia di pagani dissoluti Olympia e il proconsole romano Nicanor mettono gli occhi sui virtuosi cristiani Lilia e Hélios e li blandiscono in tutti i modi. Lui cede alla bellezza di Olympia, salvo ravvedersene più in là. Lei resiste addirittura a Satana, che prende le sembianze di Nicanor, che, come Nabucco, viene colpito da un fulmine per la sua blasfemia. Mentre nella reggia di Olympia ci si abbandona all’orgia, un Satana dal piglio vagamente sansimoniano (come Félicin David in età giovanile) incita gli schiavi alla rivolta ma il Vesuvio copre tutto con la sua lava rovente, punendo i dissoluti pagani e regalando la gioia del martirio ai cristiani. David non risparmia e non ci risparmia nulla, ma l’ispirazione è disuguale e la partitura sbilanciata: non mancano le pagine ispirate e poetiche che vengono tuttavia sacrificate alle inevitabili convenzioni del genere grandoperistico. La fattura denuncia un sicuro mestiere ma quel succedersi incalzante di ballabili inneggianti a Bacco, invocazioni al Dio dei cristiani e interventi diabolici di Satana ne annulla l’impatto drammatico e lo stesso trattamento dei personaggi soffre di un marcato bozzettismo.

La realizzazione di Wexford rende comunque un ottimo servizio a questo “Herculanum” grazie all’allestimento sobrio e minimalista di Stephen Medcalf con scene funzionali e eleganti costumi stile impero di Jamie Vartan. Il Vesuvio è ben presente e minaccioso già nelle proiezioni a sipario chiuso e l’eruzione è resa con la necessaria dose di spettacolarità grazie a un efficace gioco di proiezioni. Riuscita anche la realizzazione musicale, guidata con equilibrio e gusto da Jean-Luc Tingaud. Sulla scena un cast ben assortito: Daniela Pini è un’Olympia aristocratica e stilisticamente imperiosa, Simon Bailey dona esuberanza vocale e fisica al proconsole Nicanor e Satana, Olga Busuioc dona calore alla tormentata Lilia, mentre Andrew Haji è un Hélios pienamente convincente sul piano vocale ma piuttosto impaccio nel movimento scenico. Di grande rilievo la prova del versatile coro del festival, componente essenziale alla riuscita dello spettacolo.

Dalle pendici del Vesuvio alle tormente di neve di un non meglio precisato luogo del nord europeo per “Vanessa” di Samuel Barber e Gian Carlo Menotti. Gran successo al Metropolitan nel 1958 che continua da allora pressoché immutato in America e si ripete a Wexford per la nuova produzione di ottima fattura firmata da Rodula Gaitanou con le scene e i costumi anni ’50 di Cordelia Chisholm. Nella grande casa con gli specchi velati per fermare il tempo, Vanessa aspetta il suo Anatol da vent’anni. Anatol torna ma non è l’uomo che lei attende. È il figlio, vanesio cacciatore di dote, che prova prima con la giovane Erika e quindi con la matura Vanessa, che ricambia con un certo fervore dimenticando rapidamente l’Anatol padre. Edipo è dietro l’angolo ma lì rimane. La tragedia incombe ma non scoppia mai veramente o, quando accade, quasi non ce ne si accorge, diluita com’è fra fatuità čechoviane, psicologismi ibseniani e morbosità alla Tennessee Williams (à la page all’epoca). E inutile aspettarsi anche la stampella emotiva della musica, diligentemente scritta ma fin troppo edulcorata. Insomma, un tipico pezzo da mattatrice della scena, che a Wexford per fortuna non mancava: Claire Rutter aveva le doti dell’attrice capace di rendere potabili certi eccessi del personaggio senza scadere nella parodia oltre a trovarsi comoda nel ruolo. Le tenevano testa più che degnamente le altre due donne della casa: Carolyn Sproule, la tormentata Erika destinata a prendere il ruolo della zia Vanessa in attesa di un nuovo Anatol, e la veterana Rosalind Plowright, l’arcigna Baronessa che blocca sulla tela la tragedia delle due donne. Il fatuo Anatol era Michael Brandeburg, prestante ma dal timbro vocale non gradevolissimo, e il dottore era l’esperto James Westman. Si fa notare anche Pietro Di Bianco nei panni del cameriere Nicholas, presenza discreta ma funzionale all’accurato disegno scenico di stampo naturalistico e boulevardier della regia. Il direttore Timothy Myers faceva brillare l’orchestra guidandola con equilibrio fra i numerosi “affetti” della partitura.

Completava l’offerta 2016 un nuovo Donizetti. Dopo “Maria di Rohan” nel 2005 e “Maria Padilla” nel 2009, “Maria de Rudenz” completava l’inconsueto ciclo donizettiano delle “tre Marie” (la quarta Maria, va piuttosto ascritta alla più frequentata trilogia donizzettiana delle regine). Il libretto di Salvatore Cammarano è un dramma a tinte fosche che tracima con un certo gusto nel macabro di improbabile ambientazione svizzera. La Maria in questione è donna sedotta e abbandonata dal geloso Corrado nelle catacombe romane. A lungo creduta morta, Maria torna al castello paterno “a babbo morto” ma giusto in tempo per non perdere l’eredità e mandare a gambe all’aria il matrimonio che il fedifrago Corrado ha combinato con Matilde, ereditiera mancata per un pelo. Agnizioni a effetto, omicidio della rivale e gran scena finale “Al misfatto enorme e rio” con suicidio della primadonna assai poco espiatorio ma molto vendicativo (con buona pace del “m’aspetta il convento d’Arau” dichiarato all’inizio!). Prodotto seriale nella copiosa produzione del compositore con qualche passaggio a effetto nella consueta infilata di arie cabalette e concertati condotta con una scioltezza un po’ sbrigativa da Andrew Greenwood. Buono il quartetto dei protagonisti, specialmente Joo Wan Kang (Corrado) e Jesus Garcia (Enrico) ma la protagonista Gilda Fiume, pur non mancando di note e presenza, non ha ancora il “quid” della primadonna donizzettiana. Quanto all’allestimento, più che il macabro domina un certo gusto gotico nelle scelte scenografiche di Gary McCann, che coniuga la tradizionale Puppenstube, di cui sono pieni i musei svizzeri, con un tocco nero alla Tim Burton. Le grandi strutture in frequente movimento sono un po’ di impaccio all’azione ma non come gli stravaganti e ingombranti costumi di Giuseppe Palella. Il regista Fabio Ceresa giocava forse con eccessiva insistenza sul tema della casa di bambola con un gioco continuo fra i personaggi e i loro doppi inanimati in un disegno complesso e un po’ fine a se stesso.

Fra gli “shortworks” particolarmente interessante era la riesumazione di un lavoro per la scena di Ralph Vaughn-Williams “Riders to the Sea” tratta da un dramma di John Millington Synge. Di ambientazione irlandese ma di sapore verghiano la vicenda del tragico destino di una madre, già privata di cinque figli dalla violenza del mare, che si vedere strappare anche il sesto figlio maschio dallo stesso mare per un banale incidente a cavallo. Il tono è elegiaco come quello di una lunga veglia funebre in una quasi totale assenza di azione. Allestimento di Caitriona McLaughlin davvero essenziale ma realizzato con un certo gusto pittorico. Nel cast vocale, accompagnato al pianoforte da Benjamin Laurent, spiccavano soprattutto Philippa Boyle e Katie Lowe (le due figlie Cathleen e Nora) più che la monotona Laura Harvey (Maurya, la madre). Di umore completamente diverso le altre due operine in atto al Clayton Whites Hotel, “Il campanello” di Donizetti e “L’orso” di Walton dalla commedia di Čechov, che contava su un trio di giovani ma spigliatissimi interpreti (Sarah Richmond, “l’orso” Rory Musgrave e Ashley Mercer) sulle cui spalle poggiava interamente l’esile produzione di Kyle Lang.

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