Le alchimie impossibili di Salisburgo

Due nuove produzioni verdiane, la Greek Passion di Martinů e la ripresa dell’Orfeo ed Euridice di Gluck nell’estate musicale della cittadina austriaca

Macbeth (Foto Festival di Salisburgo/Bernd Uhlig)
Macbeth (Foto Festival di Salisburgo/Bernd Uhlig)
Recensione
classica
Großes Festspielhaus, Haus für Mozart, Felsenreitschule
Salzburger Festspiele 2023
20 Luglio 2023 - 31 Agosto 2023

Smaltita la prima ondata di prime con Mozart de Le nozze di Figaro e il Verdi del Macbeth più il Purcell un po’ sottotono di The Indian Queensecondo Peter Sellars con la nuova creatura musicale di Teodor Currentzis, Utopia Choir & Orchestra, più libera dalla dipendenza dalla Russia putiniana di musicAeterna, in pieno agosto non si allenta la spinta della corazzata del Festival, che assesta altri colpi più o meno riusciti. Se soprattutto nei giornali nostrani si continua a discettare (oziosamente) sulla legittimità di certe operazioni di regia, Markus Hinterhäuser  non cambia linea e continua con le sue alchimie, improbabili sulla carta, ma forte di una fiducia del pubblico che continua a riempire tutte le sale, nonostante i prezzi non davvero popolari.

Falstaff
 Falstaff (Foto Festival di Salisburgo /Ruth Walz)

 

Un’alchimia davvero strana è quella del nuovo Falstaff, affidato da Hinterhäuser a una bacchetta da sempre molto versata nel contemporaneo ma assai meno nell’universo verdiano come quella di Ingo Metzmacher e un regista come Christoph Marthaler, che non manca di una vena di umorismo ma soprattutto quando smonta i classici. “Se Falstaff s'assottiglia non è più lui, nessuno più l’ama”: non fa tesoro della saggezza dell’ultimo Verdi Marthaler, che al suo Falstaff toglie la pancia e non solo quella. E infatti questo Falstaff, fischiatissimo alla prima nel Großes Festspielhaus, non si sa davvero cosa sia. Parte da una suggestione cinematografica – The Other Side of the Wind, inedito per convulsioni produttive fino a pochissimi anni fa, di Orson Welles, che era già stato Falstaff (e per niente assottigliato) nel suo Chimes at Midnight del 1965 – ma non si capisce bene dove vada a parare e soprattutto cosa voglia fare della commedia verdiana, che esce piuttosto malconcia in un esercizio intellettualistico senza capo né coda. Questo Verdi alleato di Boito non è certo Pirandello e a scavare troppo nella doppia identità dei personaggi, si rischia solo di trovare il vuoto. Che è per l’appunto l’impressione che lascia questo Falstaff. L’inseparabile Anna Viebrock sull’immenso palcoscenico organizza lo spazio come un set cinematografico organizzato in tre blocchi: una sala per le proiezioni del girato giornaliero sulla sinistra, un vero e proprio set con pareti mobili al centro, e una villa californiana con piscina sul lato destro. La dispersione è grande e finisce per mancare di un solido perno narrativo, soprattutto perché l’azione è condotta più con l’ansia di riempire quello spazio e di portare avanti l’idea di interpreti che entrano e escono dai loro personaggi nel set e fuori. Non funziona nemmeno la cifra più caratteristica del Marthaler umorista “ad absurdum”: di rado si è visto un finale del primo atto più pasticciato e confuso, e non basta certo a salvarne le sorti lo snodato acrobata nel tormentone del tuffo ripetuto dal cesto della biancheria alla piscina vuota, che rischia pure di passare inosservato confuso fra la folla che invade la scena. Insomma, se Marthaler voleva farne un personale Otto e ½ sbaglia completamente il colpo: certe operazioni funzionano al cinema (e nemmeno sempre) ma non nell’orizzontalità del teatro e particolarmente nel genere commedia nel quale il meccanismo è fragile e regolato da leggi ferree.

Tornano poco i conti anche sul piano musicale, anche con una compagnia di canto come quelle che solo Salisburgo riesce a mettere insieme. Nell’insieme l’impressione è che gli interpreti siano abbandonati a loro stessi quando non manifestano una certa insofferenza per le disposizioni sceniche imposte dalla regia. Quella almeno è l’impressione che trasmette il Falstaff di Gerard Finley, certo non il primo cantante che viene in mente pensando a quel ruolo verdiano (l’ha comunque già cantato a Vienna), in perenne lotta con la pancia prostetica che maltratta di continuo e non indossa mai. La classe del vocalista di razza c’è ed è davvero un peccato non approfittarne in altre occasioni di ascolto. Fra le signore si impone, anche nelle preferenze del pubblico, la Nannetta di carattere di Giulia Semenzato, mentre un po’ sottotono sono l’Alice di Elena Stikhina e soprattutto l’impercettibile Meg di Cecilia Molinari, per tacere della pochissimo spiritosa Quickly di Tanja Ariane Baumgartner, si direbbe poco tagliata per quel ruolo. Non vanno molto meglio le cose nel comparto maschile dove Simon Keenlyside è un Ford onorevole ma poco personale, Bogdan Volkov è un Fenton di buono slancio lirico ma poco presente, e Michael Colvin e Jens Larsen come Bardolfo e Pistola sciorinano il consueto repertorio di spiritosaggini con un effetto un po’ straniante nel contesto. Impressiona poco anche la direzione musicale di Ingo Metzmacher più attento a mandare tutti a tempo che a imporre una cifra davvero personale alla sua lettura di questo Verdi (che, come tiene a dire, non è il primo che dirige) nonostante abbia davanti a sé un’orchestra impeccabile come i Wiener Philharmoniker.

 

Convince decisamente di più l’altro Verdi, quello del Macbeth, che si alterna con Falstaff sullo stesso palcoscenico. Anche qui il regista Krzysztof Warlikowski non rinuncia ai suoi consueti strumenti del mestiere, complice la fedele scenografa e costumista Małgorzata Szczęśniak, che per lui crea uno spazio dal segno onirico. Si direbbe in effetti un sogno, che spesso ha i tratti spaventosi dell’incubo, quello dei Macbeth, il cui abisso di crudeltà sembra piuttosto la proiezione psichica di un trauma prodotto da una genitorialità mancata. Mentre le streghe vaticinano il destino che attende Macbeth, Lady si sottopone a una visita ginecologica (per un aborto?), e le deformate apparizioni infantili (compreso il fantasma di Banco) segnano tutto il percorso umano dei due, non interrotto dalla morte, come da libretto, ma inebetiti su sedia a rotelle ad assistere fino all’estremo alla fine della loro miserabile parabola esistenziale, sconfitti da Macduff, strana creatura epidurale (all’epoca dei fatti, evidentemente).

Lettura estrema, se si vuole, ma coerente, disseminata, anche questa, di tracce filmiche – sia di immagini live che di vecchi film, un classico warlikowskiano – sullo schermo sospeso sulla scena, che tutto sommato non interferiscono con la linearità del racconto scenico. In questo caso la riuscita dello spettacolo deve moltissimo alle formidabili doti attorali di Asmik Grigorian, che forse non ha la voce “aspra, soffocata, cupa” della Lady immaginata da Verdi ma è interprete capace di scandagliare negli abissi della psiche ferita con una profondità degna di una grande attrice. È così brava che purtroppo mette in ombra il partner Vladislav Sulimsky, un Macbeth impegnatissimo ma piuttosto legnoso. Li affianca una compagnia solida con Jonathan Tetelman, un Macduff di slancio davvero eroico, Evan LeRoy Johnson, un Malcom che gli tiene bene testa, Tareq Nazmi, un Banco corretto ma non di grande personalità, e le presenze discrete di Caterina Piva, dama di Lady, e Aleksei Kulagin, il medico. Corposa la presenza del Coro dell’Opera di Stato di Vienna (in formazione da asporto) ottimamente preparato da Jörn Hinnerk Andresen. Chiamato a sostituire l’inizialmente previsto Franz Welser-Möst, Philippe Jordan interpreta con implacabile e inarrestabile forza teatrale questo Verdi giovanile tutto fuoco e passione alla testa dei Wiener Philharmoniker, sempre sorprendenti par capacità di cambiar pelle adattandosi plasticamente alle diverse esigenze direttoriali e sempre “giusti”.

 

Da questo punto di vista, non sorprende la profondità che questo leggendario ensemble sinfonico sfodera quando sul podio sale un direttore come Riccardo Muti, legato da decenni all’orchestra in un’alchimia che produce solo buoni risultati. Nell’ormai consueto appuntamento di Ferragosto, Muti propone un programma aperto dall’amatissimo Verdi, quello della sua ultima stagione dei Quattro pezzi sacri, di cui sceglie solo lo Stabat Mater e il Te Deum nella prima parte. La seconda parte è invece consacrata alla Settima sinfonia di Anton Bruckner, scelta non proprio comune ma nemmeno troppo insolita negli orizzonti del direttore. Il sempre festeggiatissimo direttore italiano offre una lettura miracolosamente in equilibrio fra una spiritualità assorta e arcaica e le improvvise accensioni del Verdi uomo di teatro, davvero appassionante ma non meno del Bruckner che segue, che fa risplendere nelle complesse architetture sonore esaltate con una cura del dettaglio che ottiene senza troppo sforzo da un’orchestra in perfetta sintonia “spirituale”.

Muti
Muti e i Wiener Philharmoniker (Foto Festival di Salisburgo /Marco Borrelli)

Di spiritualità si parla anche nell’ultima grande prima in cartellone alla Felsenreitschüle, The Greek Passion di Bohuslav Martinů. Tratta dal romanzo del 1950 di Nikos Kazantzakis, tradotto anche in Italia come Cristo di nuovo in croce (o La seconda crocifissione nell’edizione Castelvecchi del 2011), l’opera sviluppa un soggetto di scottante attualità, che chissà non aiuti questo lavoro, mai davvero popolare, a conoscere finalmente un successo duraturo. La versione scelta a Salisburgo, e saggiamente eseguita senza pause, non è quella concepita (e non eseguita) per Londra, ma quella andata in scena postuma a Zurigo nel 1961.

Siamo in un villaggio della Grecia rurale, durante gli anni della guerra greco-turca, di poco precedente la fine dell’Impero ottomano. Nel piccolo villaggio di Lykovrissi il pope Grigoris assegna agli abitanti, senza possibilità di replica, i ruoli per la sacra rappresentazione da rappresentarsi nella prossima Pasqua: il caffettiere Kostandis sarà l’apostolo Giacomo, il commerciante Yannakos Pietro, Michelis Giovanni, l’amato discepolo di Cristo, la vedova Katarina Maria Maddalena, il suo amante Panais sarà Giuda mentre al pecoraio Manolios tocca il ruolo di Cristo. Nonostante Grigoris esorti tutti a rappresentare degnamente il proprio ruolo, le cose cambiano quando nel villaggio arrivano dei rifugiati sopravvissuti alla distruzione del proprio villaggio da parte dei turchi. Grigoris è il più risoluto a respingere gli estranei, mentre soprattutto Katarina e Manolis manifestano pietà nei confronti dei rifugiati, guidati dal prete Fotis. Manolis li convince a riparare nell’inospitale Monte Sarakina, dove almeno troveranno delle sorgenti d’acqua. Manolis entra sempre di più nel ruolo di Cristo, rifiutando di sposarsi con la fidanzata di sempre Lenio e respingendo le lusinghe di Katarina, sempre più attratta dall’uomo. Inevitabile il martirio del nuovo Cristo, che viene ucciso da Panais/Giuda durante un attacco guidato dai vecchi del villaggio contro i rifugiati. A questi non resta che proseguire il proprio esodo alla ricerca di una terra più ospitale.

The Greek Passion
The Greek Passion (Foto Festival di Salisburgo/Monika Rittershaus)

Inevitabile il richiamo all’attualità nell’allestimento firmato da Simon Stone, uno dei più ispirati del regista visti negli ultimi anni, in una storia che, al di là delle precise coordinate storiche, ha il valore di un amaro apologo sulla natura umana. Il vasto palcoscenico della Felsenreitschule e l’alta parete rocciosa che lo chiude sul fondo sono coperti di pannelli privi di colore con diverse botole a scomparsa (la scena è di Lizzie Clachan). Superficie violata solo dal gigantesco e violento “graffito” dipinto da tre acrobati su funi “Refugees Out!” che, come un marchio di infamia per Lykovrissi, accompagna la passione e morte del nuovo Cristo. Su quei panelli le sapienti luci di Nick Schlieper dipingono i paesaggi soprattutto interiori. L’uniformità cromatica della scena sembra contagiare anche i costumi di foggia contemporanea disegnati da Mel Page per gli abitanti di Lycovrissi, che invece esplodono di colori per i rifugiati portatori di oggetti ai quali ci hanno abituato le nostre cronache quotidiane: giubbotti salvagente, tende, coperte. I movimenti, soprattutto quelli delle masse corali, sono guidati dalle sapienti coreografie di Cindy Van Acker in questo spettacolo/affresco la cui forza viene soprattutto dalle masse in movimento più che dallo scavo nei personaggi, che soffrono talora di un eccesso di didascalismo come capita in un racconto a tesi.

Da elogiare in blocco comunque tutti gli interpreti per la partecipata adesione al complesso progetto scenico e per la cura musicale, ma soprattutto Sebastian Kohlhepp, un sofferto Manolios, Sara Jakubiak, una Katerina divisa fra passioni terrene e aspirazione alla santità, Łukasz Goliński, il prete Fotis di toccante umanità, così come Charles Workman, l’ingenuo ma puro Yannakos, Gábor Bretz, l’iracondo pope Grigoris, Christina Gansch, una Lenio di pudica gioiosità, e Scott Wilde nel dolente cameo del vecchio profugo che decide di donare la vita per dare nuove radici al suo popolo. Di rilievo assoluto la prestazione del coro della Staatsoper di Vienna preparato in questa memorabile prova da Huw Rhys James e del coro di voci bianche del Festival di Salisburgo preparato da Wolfgang Götz. Anche in questa produzione brillano i Wiener Philhamoniker diretti con braccio saldissimo da Maxime Pascal nel composito affresco sonoro composto da Martinů.

 

Come sempre, seguono percorsi più personali le scelte di Cecilia Bartoli per il suo personale festival salisburghese di Pentecoste dedicato quest’anno al mito di Orfeo, dal quale proviene l’allestimento di Orfeo ed Euridice di Christoph Willibald Gluck nell’ormai tradizionale ripresa estiva nel festival maggiore. Le sempre raffinate scelte musicologiche del direttore Gianluca Capuano cadono su una versione poco frequentata, assemblata sotto il titolo Le feste d’Apollo dallo stesso Gluck nel 1769 in occasione delle nozze del duca di Parma Ferdinando con l’arciduchessa Maria Amalia d’Austria (il terzo atto era una versione adattata della prima versione viennese dell’opera). Più che per ricercatezza musicologica, la scelta è caduta su una versione più adatta alla vocalità della Bartoli (l’interprete a Parma era il soprano castrato Giuseppe Millico e non come a Vienna il contralto castrato Gaetano Guadagni) e dunque, la versione parmigiana, è stata integrata e completata con parti della versione Vienna 1762 ma anche di quella Parigi 1774. Qualche variante si nota, soprattutto si nota la scelta di un metronomo rapidissimo per la celebre “Che farò senz’Euridice”, che comunque sembra una scelta drammaturgicamente più coerente con la disperazione che il protagonista manifesta di fronte alla rinnovata perdita dell’amata consorte. Manca il festoso finale del definitivo ricongiungimento della coppia con “Trionfi Amore”, tagliato a Parma, sostituito con la ripresa del motivo funebre del primo atto in questa nuova versione Salisburgo 2023.

Orfeo
Orfeo ed Euridice (Foto Festival di Salisburgo/Monika Rittershaus)

Scelta più adatta alle corde del regista Christoph Loy che conferma la fedeltà al suo stile più recente improntato a un minimalismo estremo (con il rischio evidente che, a forza di togliere, i suoi spettacoli si assomiglino un po’ tutti). La scena disegnata da Johannes Leiacker è un salone coperto di boiserie e una scala digradante fino alla buca, e anche i costumi di Ursula Renzenbrink restano nella tradizionale linea del regista ossia completo neri e camicia bianca per gli uomini (compresa Bartoli “en travesti”) e abito da sera per le donne. Sulla parete di fondo una grande porta senza battenti che si apre solo quando il pianto di Orfeo commuove gli dei che gli aprono il varco degli inferi (fondale nero) e quindi degli Elisi (fondale bianco). Se i movimenti coreografici risultano piuttosto di maniera e ispirati a quelli del ben più riuscito spettacolo di Pina Bausch per l’Opéra di Parigi, la cura del gesto scenico, specie della protagonista, è estrema e basta a reggere bene il centinaio di minuti senza pausa dello spettacolo. Molto intenso, in particolare, lo scambio fra la ritrovata Euridice (una delicatissima Mélissa Petit) e la gioia repressa di Orfeo vincolato al patto con gli dei (e Cecilia Bartoli è davvero maestra di misura nell’espressività di un canto senza i consueti fuochi d’artificio vocali).

Del Capuano musicologo si è detto mentre resta da dire del Capuano guida formidabile de Les Musiciens du Prince, ensemble di fiducia (e a buon titolo) della padrona di casa. Suono controllatissimo e scattante, quando non si abbandona alla dolcezza dei raffinati disegni strumentali. Ottimo anche l’apporto del coro Il canto di Orfeo, fondato dallo stesso Capuano e preparato (benissimo) per l’occasione da Jacopo Facchini, che prende parte attiva all’azione scenica anche con una visibile partecipazione emotiva. Un trionfo, come sempre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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