L’appuntamento rinviato con Martinů

L’Opera di Francoforte chiude la sua stagione con un festival dedicato al compositore Bohuslav Martinů

Recensione
classica
Non ricorre alcun anniversario importante, non è di certo un nome che riempia i teatri, ma l’Opera di Francoforte gli consacra il suo “Finale”, il festival tematico che da qualche anno chiude la stagione del teatro. È Bohuslav Martinů, il quarto nome della “tetralogia” dei grandi cechi, con Smetana, Dvorák e Janacék. Figura marcatamente cosmopolita e “meticcia” rispetto agli altri più noti connazionali, di sicuro Martinů non è meno legato al suo paese di origine abbandonato per proseguire il suo percorso formativo nella Parigi delle avanguardie e in seguito per sfuggire alle dittature che oppressero per decenni il paese di origine.

Del prolifico compositore, l’Opera di Francoforte ha riproposto un significativo spaccato di suoi lavori per il teatro: il trittico di atti unici “Larmes de couteau”, “Alexandre Bis” e “Veselohra na moste” (Commedia sul ponte), oltre alla più nota “Julietta”, che con “The Greek Passion” è il titolo relativamente più eseguito in anni recenti. Ricognizione di interesse ma, curiosamente, di respiro locale, come denuncia la scelta della versione tedesca per tutti i lavori presentati.

Fra avanguardia e nostalgia delle radici Presentati in una lunga serata al Bockenheimer Depot in una produzione che si appoggiava largamente sulle risorse interne del teatro, i tre atti unici sono una testimonianza plastica delle due anime della musica di Martinů: l’interesse per le avanguardie soprattutto di ambito francese e le radici folcloriche della musica del suo paese nativo, traccia concreta del suo “dolore della separazione”, per citare Jungheinrich. Tratta da un lavoro per il teatro di Georges Ribemont-Dessaignes, “Larmes de couteau” è certamente il frutto della fascinazione di Martinů per l’estrema libertà creativa ai limiti della provocazione dell’ambiente parigino dei ruggenti anni Venti, che il giovane ceco traduce in una strumentazione insolita (fisarmonica e banjo vengono integrati nell’organico più tradizionale) e apertura a linguaggi musicali diversi (il jazz in primo luogo). Destinata al festival di musica contemporanea di Baden-Baden del 1928 ma rifiutata per via dello scandaloso soggetto vagamente necrofilo (la giovane donna protagonista è attratta dal cadavere di un impiccato), l’opera vide la luce solo nel 1969 a Brno. Di dieci anni successiva, anche “Alexandre Bis”, farsa alla francese sulla fedeltà coniugale che fa pensare a un “Così fan tutte” stravolto (lui vuol testare la fedeltà della moglie travestendosi, ma lei lo tradisce con … il proprio marito!) con stravaganze di gusto surrealista, e la musicalmente più matura “Veselohra na moste”, quasi una parabola di sapore pacifista, sono una testimonianza paradigmatica di quel costante oscillare fra avanguardia e nostalgia delle radici ceche. Le differenze stilistiche emergevano nella sensibile, ma un po’ dimessa, direzione di Nikolai Petersen, mentre la regia Beate Baron le traduceva in risultati piuttosto diseguali. Decisamente condivisibile la scelta di puntare a una straniazione di marca brechtiana in abiti folcloristici per “Veselohra”.

Dilettantesco e banalmente sopra le righe risultava il divertissement di “Alexandre Bis” e piuttosto insignificante la coreografia nella tela color sangue delle due donne di “Larme de couteau”. Anche gli episodi di connessione delle tre situazioni risultavano piuttosto ridondanti e insensati con quel gran movimento di biciclette. Compagnia di canto giovane e spigliata, con Sebastian Geyer, Katharina Magiera, Simon Bode e Thomas Faulkner impegnati in più ruoli.

La fuga nel sogno In un certo senso “Julietta” segna lo spartiacque fra i fermenti della Parigi delle avanguardie e gli orrori imminenti che insanguineranno il continente europeo e convinceranno Martinů alla fuga negli Stati Uniti nel 1940. Tratta dal testo teatrale di Georges Neveux, surrealista di segno più crepuscolare e onirico, “Julietta” è l’emblema del sogno come fuga, dell’impossibilità di conciliare il sogno con il reale. Più che una donna, il libraio parigino Michel Lepic insegue una voce che poi è quella della donna dei suoi sogni che solo nel sogno vive, il suo sogno e di tutti gli altri clienti del burocratico Ufficio Centrale dei Sogni. Per la produzione vista nella scena maggiore, l’Opera di Francoforte impiegava più mezzi affidando al proprio direttore musicale Sebastian Weigle la cura musicale della complessa partitura. Manifestamente più attratto dalla dimensione lirica dell’opera di Martinů, il direttore insisteva piuttosto sul legame del compositore ceco con la grande tradizione europea più che dal suo interesse per le correnti più avanzate della musica del tempo. Nella scena a impianto fisso di Boris Kudlička (la hall di un hotel con gente che va e gente che viene), la regia di Florentine Klepper non fa sognare, è priva di colpi d’ala e non va al di là di una lettura piuttosto generica della vicenda. Nel cast primeggiava ovviamente il Michel disegnato con eleganza da Kurt Streit e, fra i numerossissimi personaggi, si distingueva soprattutto il giovane Boris Grappe impegnato in vari ruoli (fra cui quello del venditore di ricordi), mentre era un po’ troppo evanescente la Julietta di Juanita Lascarro. Nel complesso, un “Finale” interessante per scoprire o riscoprire Martinů. Lo sdoganamento definitivo a compositore del grande repertorio, se mai avverrà, è rinviata a una prossima occasione.

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