La musica apolide del Festival del Mediterraneo

Un mese di concerti a Genova, dal blues a Mauricio Kagel
 

Tetra Festival del Mediterraneo
Tetra
Recensione
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Genova
Festival del Mediterraneo
01 Settembre 2017 - 30 Ottobre 2017

Apolide è parola che può significare molte cose, a seconda della declinazione emotiva e razionale scelta. Musica apolide può avere dunque molte e diverse valenze semantiche: note che non si riconoscono in uno status quo, musiche nate dove una patria non è riconoscibile, perché sotto il tallone di un oppressore, o, ancora, melodie che sono guardate con sospetto perché non abituali. Ed anche musiche di una libertà che non c'è, apolide, appunto, nel senso di “privata di una polis”, di un ambito pubblico dove esprimersi. 

Musica apolide era il tema della ventiseiesima edizione del Festival Musicale del Mediterraneo, la rassegna curata a Genova da Echo Art di Davide Ferrari, musicista e musicoterapeuta, che da qualche tempo è una sorta di progetto itinerante in magnifiche location storiche cittadine. Un mese di concerti e incontri, riuniti da un fil rouge di volta in volta pressante e lasco, come poi è giusto che sia: un tema conduttore dev'essere cornice e sfondo, non cogente impegno filologico. È stato un bel festival, con molte punte d'eccellenza. Rovesciando la cronologia fattuale, tanto vale partire dall'ultima data, il 30 settembre: Ferrari aveva ideato un tributo a Nelson Mandela ambientato nella chiesa sconsacrata di Sant'Agostino nel centro storico, con voci, poesie, canti, recitazione percussioni, suoni ambientali, movenze di danza. Sul palco tante persone a ricostruite la vicenda “apolide” di Mandela, l'uomo privato del diritto di parola dai razzisti, e che anche nel buio di una celletta angusta è riuscito ad essere “capitano della sua anima”, sino alla vittoria. Segnaliamo la presenza sul palco di Tapa Sudana, il balinese che è uno degli attori prediletti da Peter Brook, maestro impareggiabile di movenze tratte dalle arti marziali orientali, a impersonare Mandela, e dei magnifici cantori a cappella Zulu Insigizi. 

Il festival era iniziato nel segno dell'accorato “desert blues” dei Tuareg Anewal, preceduti da un set del grande bluesman italiano Paolo Bonfanti, poi sul palco con loro in jam (la pentatonica è davvero terreno comune d'intesa), e con l'emozionante, struggente set pianistico di Aeham Ahmad, il pianista palestinese del campo profughi alle porte di Damasco che, ogni volta che si fermano le bombe, carica su un carro il piano, e suona per la gente per restituire sorrisi e speranza. Melodie classiche, diteggiatura trascendentale, e molte canzoni tradizionali modali di grande bellezza. Il 3 il musicoterapeuta Guy Thevenon, che a Castello d'Albertis ha mostrato, con decine di esempi pratici, quali e quanti siano stati sin dall'inizio gli strumenti di Homo Sapiens. 

Musicisti rifugiati da diversi Paesi nel progetto Refugees for Refugees, a Palazzo Ducale il 3 settembre, apolidi per necessità. Note apolidi fra classicità occidentale (Iroha Strings Group) e Oriente della tradizione con il maestro Joji Hirota, specialista di tamburi taiko e flauto shakuhachi. E poi due appuntamenti più “leggeri”, ma deliziosi, con le canzoni tra morna, fado e world music del Duo Flor de Sal, e del quartetto vocale svedese (ma le vocalist sono delle più varie e “apolidi” origini) Tetra, impegnato in un repertori di ninnenanne dal mondo. 

Apolide per definizione è il theremin, lo strumento che si suona letteralmente “nell'aria” inventato cent'anni fa in Russia. Pamelia Stickney ne è una delle massime specialiste, e il 13 settembre ha offerto a Palazzo Rosso un set in improvvisazione con magnifiche architetture sonore create sul momento. Altre eccellenze con il tumultuoso, implacabile set dei marsigliesi Cor de la Plana: febbrili e travolgenti, un gruppo di voci e percussioni che reinventano letteralmente il canto a cappella, anche “politico” senza dimenticare secoli di elaborazioni melismatiche. Il 15 settembre al Castello d'Albertis Exotica, una partitura contemporanea di Mauricio Kagel che prevede anche l'apporto di strumenti etnici: nelle mani di alcuni musicisti della Banda di Piazza Caricamento, e a cura di Stefano Guarnieri e Matteo Manzitti. In sala c'erano anche le Tetra: chiamate alla fine a raggiungere la Banda sul palco tra gli applausi.

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